Benvenuti a Cuba: spiagge, mare e pillole miracolose
Con l'emergenza del Covid-19 l’isola sogna di essere riconosciuta come potenza sanitaria e farmaceutica puntando soprattutto sull’industria bio-tecnologica: secondo l'Ufficio nazionale di statistica, l'export di servizi sanitari ha portato al Paese 6,4 miliardi di dollari nel 2018, più del turismo
di Fabio Bozzato
2' di lettura
Cuba ha fretta, e con l'emergenza del Covid-19 sogna di essere riconosciuta come potenza sanitaria e farmaceutica. Il primo biglietto da visita sono le “brigate”' di medici e infermieri mandati in giro per il mondo. È diplomazia (c'è una lista di Paesi dove vanno gratuitamente), è strategia mediatica (52 sono venuti anche in Italia in piena emergenza Coronavirus), soprattutto è business: secondo l'Ufficio nazionale di statistica, l'export di servizi sanitari ha portato all'isola 6,4 miliardi di dollari nel 2018, più del turismo.
C'è chi si sta impegnando per candidare queste delegazioni mediche al Nobel per la pace, ma a leggere i racconti dei sanitari fuggiti e non rientrati in patria la retorica del regime ne esce malconcia. Comunque, il vero asso su cui punta Cuba è l'industria bio-tecnologica. Gli annunci che riguardano la messa a punto di farmaci miracolosi sono continui. All'inizio è stato l'Interferon Alfa 2B, prodotto in Cina dall'impresa mista Heber Chang, capace secondo La Avana di ridurre la carica virale del Covid. A dare retta ai media ufficiali, i cubani avrebbero un arsenale di pillole: gli immunostimolanti omeopatici, la Biomodulina T, sempre omeopatico per le vie respiratorie, poi lo Itolizumab anti-infiammatorio. E ancora: il Ritonavir, antiretrovirale usato per l'Hiv, il CIGB 258 e l'Eritropoietina. Cuba ha fretta di vendere prodotti.
«Ci stiamo concentrando sullo sviluppo di un vaccino. Abbiamo quattro possibili strategie e si lavora celermente per iniziare la sperimentazione», dichiarava fin da aprile Eduardo Martínez Díaz, il presidente di BioCubaFarma, la farmaceutica di Stato, al giornale di partito Granma. Dagli anni Novanta, l'industria bio-tecnologica è considerata il fiore all'occhiello del regime. Ci lavorano 21 centri di ricerca, 32 imprese e 20mila addetti. BioCubaFarma dichiara di avere contratti con 50 Paesi, da cui ha incassato nel solo 2017 ben 235 milioni di dollari (ultimi dati resi pubblici), più di tabacco, rum e zucchero.
Uno dei più brillanti giornalisti cubani, Abraham Jiménez Enoa, ha scritto amaro sul Washington Post che «i successi della medicina servono a Cuba per provare a cancellare le impronte lasciate sul terreno dei diritti umani». Me lo ripete, al telefono, ancora più sconsolato: «La medicina è un baratto politico ed economico».
Il nodo scorsoio rimane l'embargo yanqui che strozza le forniture di materiali. E così il ministro della Sanità, José Ángel Portal, ha dovuto confessare come nella stessa isola siano insufficienti tante medicine, 116 per l'esattezza, 87 di produzione nazionale e 29 importate. Le sanzioni funzionano come un gioco cinico: gli Stati Uniti le usano per soffocare l'economia cubana e il regime le usa come uno schermo per rifugiarsi. Succede ormai dal 1962.
Tanto clamore attorno alle biotecnologie serve anche per tenere alto il morale all'interno del Paese, dove tutti temono di essere con un piede già dentro un secondo periodo especial, dopo il decennio funesto succeduto alla caduta del blocco socialista, che negli anni Novanta ha lasciato l'isola abbandonata e in miseria. Abraham, camminando in una via de La Avana, si ferma un attimo e mi dice: «Sono proprio di fronte a una farmacia, c'è una coda enorme. È questa è la potenza di cui si vantano?».
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