Bergamo si riaccende con Daniel Buren
«Mi piace l'idea che una delle bellezze dell'arte sia quella di non servire a niente, almeno a priori. L'artista non lavora per qualcuno o per dimostrare qualcosa, ma perché l'opera esista e venga “offerta”, senza scopo né funzione. Se c'è una qualità dell'arte è il suo essere allo stesso tempo libera e senza funzione, ma necessaria. Davanti all'opera, il pubblico deve saper inventare, non c'è un senso predeterminato»
di Stefano Castelli
5' di lettura
Bergamo riapre all'arte e lo fa con un ospite d'eccezione. Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, 1938) trasformerà il Palazzo della Ragione, in città alta, con una mostra organizzata dalla GAMeC. Il maestro degli interventi nello spazio pubblico racconta in anteprima a IL il progetto e riflette sul suo percorso, dalle affissioni nelle strade di Parigi ai grandi progetti degli ultimi decenni.
Buren, che cosa realizzerà a Bergamo?
Proporrò dei lavori fatti con le fibre ottiche, che ho iniziato a usare quindici anni fa. Un'azienda di Lione che lavorava la seta trasformò i suoi macchinari per iniziare a tessere la fibra ottica; mi chiesero se volevo fare delle opere con quel materiale in occasione del lancio del nuovo prodotto, e accettai. È un filo sottilissimo, quanto un capello, e negli anni il risultato ha assunto l'aspetto di un vero e proprio tessuto, collegato a dei Led: quando vengono accesi, tutto il tessuto si illumina. L'idea della mostra è che, nella grande sala del Palazzo della Ragione, le mie opere siano come tessuti sospesi che rimarranno accesi giorno e notte e illumineranno lo spazio, in particolare al calare della sera.
Si è ispirato più alla storia del palazzo o alla sua architettura?All'architettura, il resto andrà da sé. Non toccherò assolutamente gli affreschi sulle pareti, il lavoro si integrerà in ciò che esiste, modificandolo poco.
Esporre ora a Bergamo è fortemente simbolico. Che cosa può fare l'arte per un mondo che è da ricostruire?
La questione è molto vasta, direi che si sarebbe potuta porre anche se non ci fosse stato il virus. Mi piace l'idea che una delle bellezze dell'arte sia quella di non servire a niente, almeno a priori. L'artista non lavora per qualcuno o per dimostrare qualcosa, ma perché l'opera esista e venga “offerta”, senza scopo né funzione. Se c'è una qualità dell'arte è il suo essere allo stesso tempo libera e senza funzione, ma necessaria. Davanti all'opera, il pubblico deve saper inventare, non c'è un senso predeterminato.
Ecco perché lei usa molto spesso spazi di passaggio...
Sì, spazi il più possibile aperti. Non c'è mai l'obbligo di vedere una mia opera da un punto di vista preciso. Ci sono centinaia di punti di vista, nessuno di questi è privilegiato e nessuno è poco rilevante. C'è una grande libertà di lettura, persino la libertà di passare e non accorgersi dell'opera. Non lavoro mai come fa la pubblicità, che vuole mostrarsi. Faccio il contrario della pubblicità.
Diverse sue opere hanno suscitato proteste. In che cosa consiste lo scandalo che l'arte continua a provocare?
Non è mai dipeso da una mia volontà di provocare. Penso allo scandalo per la mia opera al Palais Royal di Parigi: il primo a essere sorpreso sono stato io, non avrei mai immaginato che un'opera così astratta avrebbe potuto generare una reazione simile. Nelle nostre società occidentali, purtroppo, la maggioranza delle persone ha una pessima educazione artistica e visiva (senza averne colpa, beninteso). Se qualcosa esce dall'ordinario arriva addosso alle persone come uno schiaffo, è normale che reagiscano. Lo spazio pubblico è pieno di cliché che, se vengono reiterati, non scioccano nessuno. Se l'architettura è in media così brutta è perché si accettano cose brutte senza avere la possibilità di metterle in discussione.
Si può immaginare un rapporto virtuoso tra architettura, arti visive design, pubblicità, nel paesaggio urbano?
La cosa interessante dello spazio pubblico è proprio che queste cose vi si mescolano, lo si voglia o no, e ciò pone dei problemi molto stimolanti. Per la nuova linea tramviaria di Tours, per esempio, ho collaborato con architetti, geografi... Ogni quartiere poneva un problema specifico da affrontare: abbiamo lavorato con quello spirito cooperativo che è necessario, perché ci sono grandi conflitti da risolvere. Per esempio, le questioni di sicurezza — con coloro che le stabiliscono non si entra nemmeno in contatto — spesso rovinano l'opera. Potrebbero mettere qualche cestino in mezzo alla struttura, oppure un pavimento in caucciù per i non vedenti al posto di quello proposto e accettato dal comitato scientifico... Non dico che siano questioni poco importanti, ma bisogna combattere per salvaguardare l'opera.
Guardando ai suoi inizi: come nacquero le sue famose strisce verticali. E perché sempre 8,7 centimetri?
All'epoca mi chiedevo: può esistere la pittura senza la narrazione, l'illustrazione, la figurazione, persino senza l'astrazione nel senso storico del termine? Un giorno, in un mercato parigino, mi sono imbattuto in un tessuto a strisce per materassi e cuscini. Ho iniziato a usarlo al posto della tela, poi invece che un supporto questo tessuto è diventato la parte essenziale del lavoro. A questo punto mi è diventato chiaro che l'opera esiste solo grazie al contesto. Così, non trovando un atelier, mi sono detto: non perderci tempo, dedicati alla strada. Stampai il mio motivo a strisce su carta e iniziai a usarlo come un manifesto, incollandolo dove volevo. La dimensione delle strisce è sempre la stessa, quella del tessuto che trovai al mercato: con questa misura rimangono distinguibili sia da lontano sia da vicino, senza effetto ottico — una qualità fisica molto importante per me.
Nell'arte delle ultime generazioni ritrova questo spirito critico o la pittura (e in generale l'arte) è rimasta estetizzante come lei denunciava in un suo celebre manifesto?
Ce n'è ancora molta di estetizzante... Ma, per fare un esempio, la consapevolezza che fare arte sui muri della città era possibile ha creato ciò che oggi chiamiamo Street art (che peraltro apprezzo poco). Se “salta” l'atelier cambia tutto... Però non si può raffigurare una cosa qualunque: ad esempio un coniglietto ripetuto non sarebbe la stessa cosa di un motivo come le strisce. Ciò non toglie che ci siano ancora molti coniglietti in giro (ride, nda).
L'opera realizzata che è rimasta nel suo cuore?
Difficile sceglierne una. Anche i lavori che ritengo più riusciti lo sono a causa del contesto. Scegliere sarebbe come paragonare due spazi diversi — per esempio, prendendo le sedi di due miei lavori, il Palais Royal e la metropolitana di Londra. Non sono confrontabili.
E il lavoro non portato a termine che rimane un rimpianto?
Subito dopo la caduta del Muro avevo lavorato molto per un progetto a Weimar, per il quale ero stato invitato dagli amministratori locali. Dopo la conferenza stampa, che non volevo nemmeno fare, uno dei giornalisti ha attaccato il lavoro. È difficile da credere, ma il consiglio municipale si è riunito alle due di notte per decretare che la piazza che mi era stata concessa era un luogo storico intoccabile. Poi c'è il problema della manutenzione, se si tratta di una fontana o una statua antica le amministrazioni ci fanno attenzione, ma se è un'opera contemporanea quasi mai viene conservata.
È per questo che in alcuni casi ha chiesto di distruggere le sue opere...
È grazie a questa “minaccia” che si è potuto restaurare l'opera al Palais Royal. Nessuno aveva considerato il gran numero di persone che avrebbero camminato in quel luogo: l'usura è stata rapidissima. Meglio distruggere completamente un lavoro che lasciar esistere a mio nome qualcosa di deturpato, che non posso più accettare e riconoscere.
Daniel Buren per Bergamo:
Illuminare lo spazio
(lavori in situ e situati)
Dal 9 luglio al primo novembre,
Bergamo, Palazzo della Ragione
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