Berlin Biennale: riparare le ferite del passato per reinventare il mondo
Kader Attia ha sviscerato il tema centrale della decolonizzazione con 80 artisti in tutte le sedi espositive con mezzi diversi e installazioni di grandi dimensioni
di Maria Adelaide Marchesoni
I punti chiave
6' di lettura
Il 2022 è un anno molto intenso di appuntamenti con le biennali d'arte sparse in tutte le latitudini. Ha dato l'avvio la Biennale del Whitney Museum («Quiet as It's Kept!»), a seguire Venezia (Il latte dei sogni), tuttora in corso, e ha appena inaugurato la Biennale di Lione (dal 14 settembre al 31 dicembre 2022) edè in apertura la 17ª edizione della Biennale di Istanbul, (dal 17 settembre al 20 novembre ma e originariamente era prevista per il 2021 poi spostata causa Covid), mentre sta per chiudere il sipario «Still Present!» la 12ª edizione della Biennale d'arte di Berlino (dall'11 giugno al 18 settembre).
Curata da Kader Attia insieme a un team di donne ha presentato circa 80 tra artiste e artisti provenienti in gran parte da luoghi distrutti e tuttora sfruttati da guerre perpetue.
Il progetto curatoriale dell'artista francese di origini algerine ha affrontato il tema del colonialismo mostrando come ancora oggi sia presente sotto altre forme e come l'arte possa porre rimedio.
La sua è un'accusa all'”universalismo” egemonico che ha dominato il mondo nel secolo precedente che si ripercuote sul presente sotto forma di nazionalismi crescenti, tecnologie di sorveglianza e una catastrofe climatica in atto.
Nella sua pratica artistica Attia fa spesso riferimento al passato che si manifesta nel presente attraverso le sue ferite il curatore-artista propone di affrontare il trauma invitando ad un’azione collettiva che smantelli il mondo costruito secondo l’immagine occidentale.
Il tema centrale della 12ª edizione, la decolonizzazione, viene sviscerato in tutte le sedi espositive con mezzi diversi e, come successo in passato, anche per questa edizione della Biennale l'arte viene presentata in luoghi insoliti. Oltre ai musei più importanti, la mostra trova spazio per esempio nell’ex sede dei servizi segreti della DDR (gli edifici numero 7 e 22 del quartier generale della Stasi) e nel progetto “Dekoloniale - Erinnerungskultur in der Stadt (Decoloniale - Cultura del ricordo nella città)”. A seguire una selezione delle opere nelle diverse sedi.
KW - Institute for Contemporary Ar
La mostra divide il tema centrale in capitoli che occupano le diverse sedi. Al KW – Institute for Contemporary Art è dato il compito di far emergere le questioni, di dare visibilità ai temi e ai nodi politici più roventi, ma il curatore ha lavorato molto anche sul concetto di riparazione: far parlare le ferite per ricucirle. Tra i lavori quello del francese Mathieu Pernot che racconta la storia dei Gorgans, una famiglia rom che vive alla periferia di Arles, nel sud della Francia, un lavoro che si colloca a cavallo tra fotografia e film. La famiglia abita la regione da generazioni, ma le loro condizioni di vita e di lavoro rimangono in gran parte quelle di subalterni nomadi. I loro incontri con le istituzioni politiche della società francese ed europea avvengono principalmente con la polizia e il sistema penale. Senza accesso ai privilegi della cosiddetta cittadinanza normale, la loro vita quotidiana è necessariamente segnata da una continua invenzione delle forme di esistenza comunitaria. Kader Attia vuole anche farci riflettere sul tempo e sullo spazio attraverso «Suspended Time» dell'artista Taysir Batniji che dalla metà degli anni Novanta ha prodotto un’opera estremamente varia - disegni, oggetti, fotografie e video - che intreccia la propria biografia con gli eventi attuali e le nozioni di storia, provvisorietà e fragilità. «Suspended Time» fa parte di un corpus di opere realizzate dall'artista nell’anno in cui ha lasciato Gaza senza possibilità di ritorno. Posizionare una clessidra in orizzontale gli permette di congelare un gesto senza tempo. In questo senso «Suspended Time» è collegata a un’altra opera, la performance registrata «Voyage Impossible», 2002 che mostra l’artista mentre sposta incessantemente un mucchio di sabbia da destra a sinistra, in riferimento al mito di Sisifo.Tra le altre opere nella sede del KW Institute for Contemporary Art si impone «Women Now» la monumentale opera fotografica di Alex Prager (lavora con Lehmann Maupin) che con il suo lavoro esplora il rapporto tra l'individuo e la collettività (in foto in apertura « Crowd #4 (New Haven)», 2013/22). Quest'opera in particolare, racconta come le aspirazioni, le speranze, ma anche le paure e i fallimenti di ciascuno siano sempre validi e vadano quindi rappresentati. Anche la paura di smarrire sé stessi è un dramma, ma al tempo stesso è anche la spinta a essere più uniti nonostante le differenze.
Hamburger Bahnhof
All'Hamburger Bahnhof c'è la rappresentazione del conflitto attraverso opere di grandi dimensioni, museali, installate nell'edificio di un'ala del museo che offre ampio spazio per la realizzazione di progetti immersivi. Il lavoro si inserisce in un filone presente nella Biennale e tra i più suggestivi e riusciti, le storie di esseri umani che hanno tracciato presenze, emozioni, drammi e traiettorie seguendo e incrociando guerre coloniali. Come lo straordinario megavideo di Tuan Andrew Nguyen «This undreamt of sail is watered by the white wind of the abyss» 2022, che ricostruisce lo straziante cammino di soldati senegalesi mandati dai francesi in Indocina a reprimere la rivolta vietnamita. Lì sono nati tra senegalesi e vietnamite amori, figli, sradicamenti, diaspore, silenzi che hanno costruito traumi indicibili che vengono curati dalle generazioni successive tramite il racconto. È composta da un'installazione sonora, filmati e video di telecamere di sorveglianza israeliane l'opera di Basel Abbas e Ruanne Abou-Rahme che narra la storia di Yousuf, ragazzino palestinese che avendo superato la barriera di separazione per raccogliere l'akoub, pianta prelibata per la cucina palestinese, fu ucciso dai militari israeliani.Tra le opere più imponenti c’è l’installazione digitale «Air Conditioning» (2022) di Lawrence Abu Hamdan. Si tratta della stampa digitale orizzontale di un cielo nuvoloso che avvolge un ampio spazio espositivo dettagliando le violazioni israeliane dello spazio aereo libanese tra il 2006 e il 2021. I colori mutevoli dell’opera riflettono la densità di queste intrusioni, visualizzate come una forma di inquinamento, mentre un sito web di accompagnamento offre agli spettatori diversi modi per comprendere l’ampiezza e la profondità di queste violazioni.
Stasi-Zentrale Campus für Demokratie
L’opera più piccola e intima della mostra nell'edificio della Stasi è «A Place Which Is Ripe» 2020 di Omer Fast (lavora con la galleria Gb Agency, Parigi, dove i video hanno un range di prezzo compreso tra 25-100.000 euro, mentre per designi, sculture e foto oscillano tra 1.500 e 20.000 euro). Installati in un armadietto utilizzato dai visitatori del Museo della Stasi, completo di camicie appese e di una giacca che potrebbe appartenere a un agente di sicurezza tedesco, sono tre video sincronizzati su telefoni cellulari con audio tedesco e sottotitoli in inglese. Insieme, presentano l’indagine dell’artista sui diversi regimi di sorveglianza in Inghilterra e in Germania. Attraverso interviste con esperti di sicurezza, Omer Fast contrappone il vecchio sistema britannico con l’aumento delle telecamere a circuito chiuso che hanno aiutato a risolvere gli omicidi negli anni ’90, all’alternativa emergente in rete in Germania, dove i filmati dei cellulari hanno aiutato ad arrestare i sospetti dopo casi di violenza sessuale in diverse città tedesche durante la notte di Capodanno del 2015.
Akademie der Künste, Hanseatenweg
È un'indagine sugli effetti delle nubi tossiche l'installazione a due canali «Cloud Studies» (2022) di Forensic Architecture. Proiettati su un grande schermo semicircolare, il video e il testo a parete che lo accompagna indagano su come gli Stati repressivi che si avvalgono della tecnologia aziendale utilizzino gas lacrimogeni, cloro e fosforo bianco per “colonizzare” l'aria. Queste operazioni tossiche non colpiscono solo i loro obiettivi politici, ma anche gli abitanti del mondo, rendendo il pianeta meno vivibile.
Le controversie
Questa edizione della Biennale di Berlino non è stata immune da alcune problematiche in seguito alla decisione da parte degli artisti iracheni di rimuovere le loro opere dall'esposizione. In una lettera aperta, gli artisti Sajjad Abbas, Raed Mutar e Layth Kareem si sono espressi contro l’esposizione delle loro opere all’Hamburger Bahnhof, dove erano mostrate anche le fotografie ingrandite dell’artista francese Jean-Jacques Lebel, che ritraggono i detenuti torturati nella prigione di Abu Ghraib in Iraq, scattate dai soldati americani e diffuse nel 2004, un anno dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti, in un'installazione labirintica intitolata «Poison Soluble» (2013), già esposta al Palais de Tokyo nel 2018. “In una mostra che dà priorità all’esposizione di iracheni ingiustamente imprigionati e fotografati nell’atto di essere torturati sessualmente e fisicamente, no, non troviamo sincerità o trasparenza in questa risposta paternalistica... Ci siamo ritirati dalla Biennale di Berlino e apprezziamo i quasi 400 che hanno aggiunto le loro firme in solidarietà [alla lettera]. Le opere di Mutar e Abbas sono state inizialmente trasferite in sedi diverse (Akademie der Künste Pariser Platz e KW Institute for Contemporary Art), mentre il lavoro di Kareem è stato presentato in un video cabinet in un’altra sala dell’Hamburger Bahnhof, ma in seguito le opere sono state rimosse.
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