Berlusconi e il rapporto con l’Ue, dagli screzi con i leader alla suggestione dell’intesa a destra
Berlusconi ha frequentato per decenni le sedi europee, dai tempi di Palazzo Chigi all’ultima elezione al Parlamento Ue. Un bilancio
di Alberto Magnani
I punti chiave
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L’ultimo segno di sé, in Europa, lo ha lasciato nella sede più naturale e più eccentrica per un leader con la sua storia: il Parlamento Ue, dove è stato eletto nel voto del 2019 ed è rimasto fino all’ottobre del 2022, prima di cedere lo scranno a Lara Comi e tornare in Italia con l’avvento del governo Meloni. Una tappa che ha concluso un rapporto con le istituzioni comunitarie lungo alcuni decenni e scandito da stagioni diverse, dalle tre esperienze da premier a quello di europarlamentare, «uno dei tanti» usciti dalle urne dell’ultima legislatura europea e uno dei tanti a lasciare Bruxelles prima del termine del mandato.
Un rapporto mai lineare, quello con la Ue, dagli anni delle turbolenze con gli altri leader europei alle riconciliazione tentata negli ultimi mesi, dall’euroscetticismo latente all’ancoraggio iper-europeista, fino alla sintonia spontanea con l’ipotesi di una nuova maggioranza a tutta destra nel Parlamento Ue: l’asse fra Popolari europei e Conservatori vagheggiato soprattutto in Italia, una riedizione su scala più ampia dell’intesa che ha tenuto in piedi i suoi governi e ha sdoganato lui stesso 30 anni fa, ai tempi della discesa in campo nel 1994.
Il matrimonio fra Forza Italia e il Ppe
Se si guarda al profilo partitico, la linea conduttrice degli anni europei di Berlusconi è l’adesione di Forza Italia al Partito popolare europeo: un rapporto che ha finito per riflettere e riassorbire le turbolenze del suo fondatore con i singoli esponenti Ue o le istituzioni comunitarie nel loro complesso, dall’elezione di Antonio Tajani alla testa dell’Eurocamera alle minacce di espulsione aleggiate per le sortite su Zelensky di Berlusconi a inizio 2023. Oggi il drappello di forzisti rappresenta 12 dei 177 seggi del Ppe nel 2023, alla vigilia del primo voto alle europee senza Berlusconi in decenni.
Forza Italia ha aderito al Ppe nel 1999, superando un voto interno al partito europeo che si era chiuso con 73 sì, 18 no e 4 astensioni, fra l’entusiasmo di delegazioni come quella tedesca e lo scetticismo di olandesi e belgi. Fra gli endorsement più pesanti quello dello storico cancelliere tedesco Helmut Kohl, favorevole a un acquisto che avrebbe rinsaldato i numeri della famiglia dominata dalla sua Unione cristiano-democratica (Cdu). L’ingresso rientrava nel disegno di Berlusconi di conferire una veste centrista a un partito che si è sempre auto-descritto come moderato, ma ha scatenato le stesse tensioni arrivate fino a oggi: i timori per le inclinazioni più a destra di Forza Italia e, soprattutto, le ricadute di immagine dovute a un fondatore troppo ingombrante per essere - sempre - dissociato dall’attività dei suoi europarlamentari.
Le cronache recenti sono un esempio dell’ambiguità della relazione. Il leader del partito europeo, il bavarese Manfred Weber, ha sempre ribadito il peso e il rilievo di Forza Italia nel Ppe, complice il rapporto di fiducia con Antonio Tajani. Altri esponenti nella famiglia, a partire dalla stessa Germania, hanno maturato un’insofferenza crescente per Forza Italia e le sue oscillazioni sovraniste, oltre alle sintonie personali di Berlusconi con leader come il premier magiaro Viktor Orban e soprattutto il presidente russo Vladimir Putin.
Lo stesso Weber si è trovato costretto a uno strappo estemporaneo con Forza Italia nel febbraio 2023, quando ha sospeso delle giornate di studio del Ppe a Napoli in reazione alle parole di Berlusconi sul presidente ucraino Zelensky. La crisi è rientrata e solo qualche giorno fa Weber ha ribadito che Forza Italia è un «solido pilastro» del Ppe, divenendo poi fra i primi esponenti comunitari a esprimere le sue condoglianze per Berlusconi. Lo ha seguito la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, a sua volta membro del Ppe.
Gli screzi con i leader e la parabola sulla Ue
Più complicato il legame del Berlusconi premier e uomo politico con le istituzioni europee e soprattutto gli altri leader comunitari. Sua la scelta di Emma Bonino come commissaria europea nel 1995 e di Antonio Tajani per l’esecutivo Ue nel 2008, ulteriore accelerazione a una carriera europea già avviata e culminata nella presidenza del Parlamento Ue. Due guizzi in una parabola con diversi momenti di tensione, se non scontri aperti in sede europea.
Fiero delle sua rete di relazioni - fra gli altri - con il presidente Usa George W. Bush e il presidente russo Vladimir Putin e artefice dell’incontro che «ha posto fine alla guerra fredda» a Pratica di Mare nel 2002, Berlusconi non è mai passato inosservato in sedi europee per ragioni meno entusiasmanti di quelle trasparse nel suo racconto politico. Fuori dalle gaffe più celebri, come la battuta sul «kapò» dell’allora leader socialdemocratico Martin Schulz nel 2003, Berlusconi si è trovato più di una volta in rotta di collisione con i parigrado europei, a volte per la rottura del galateo istituzionale, a volte per divergenze e assenza di fiducia reciproca.
Fra i casi più eclatanti ci sono quelli che lo hanno visto scontrarsi con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese Nicolas Sarkozy, in teoria suoi partner europei nella famiglia del Ppe. Il rapporto con Merkel non è mai decollato, complice i vari momenti di tensione o imbarazzo che ne hanno scandito la relazione: dal giallo sui presunti insulti personali di Berlusconi alla cancelliera all’episodio di Kehl, in Germania, quando l’allora premier lasciò in attesa Merkel all’accoglienza del vertice Nato (Berlusconi si sarebbe difeso spiegando di essere al telefono con il presidente turco Recep Erdogan). Con Sarkozy la sintonia, mai evidente, è naufragata in occasione di uno sgarbo sofferto da Palazzo Chigi: il sorriso ironico proprio fra Merkel e Sarkozy a una domanda dei giornalisti sull’affidabilità dell’Italia a fare fede ai propri impegni.
Pur in assenza di una riappacificazione formale, i rapporti fra Berlusconi e i suoi ex (?) rivali europei si sono ammorbiditi negli anni. Una traiettoria che ricalca la linea più generale di Berlusconi sull’Europa: dalle accuse di euroscetticismo dovute alle posizioni di suoi ministri come Antonio Martino o Giulio Tremonti, a un’adesione sempre più esplicita ai «valori europei» e la difesa della permanenza di Fi nella famiglia del Ppe. Anche come garanzia filo-Ue nel governo Meloni, guardato con perplessità dai vertici europei per le sue intonazioni nazionaliste e la sintonia fra la premier e alcuni dei leader più riottosi nella politica comunitaria, a partire dall’ungherese Viktor Orbán.
La suggestione della «sua» alleanza di destra
È proprio sul crinale fra ancoraggio al centro e pulsioni a destra che si è giocata l’ultima partita europea di Berlusconi, quella che sembra già vacillare negli scenari comunitari: l’alleanza fra il “suo” Partito popolare europeo e la famiglia degli European conservative and reformists, i Conservatori europei capeggiati dalla premier italiana Giorgia Meloni. Di fatto una replica su scala Ue dell’intesa raggiunta in Italia, anche se con l’esclusione del gruppo che ospita fra le sue file la Lega (Identità e democrazia) e le polemiche che ne sono scaturite.
Non è chiaro quanto l’ipotesi possa reggere alla campagna elettorale fino al voto del 2024, anche perché lo stesso leader popolare Manfred Weber ha iniziato a fissare paletti con i Conservatori e ridimensionare una partnership chiacchierata soprattutto in Italia. Ma lo sdoganamento dell’intesa fra centro e destra, inaugurata da Berlusconi nel 2024, trova sempre più espressioni sia nei singoli Paesi che nei macro-equilibri dell’Eurocamera. Anche a equilibri ribaltati, visto che è spesso il centro a subire l’ascesa della destra e adeguarsene in chiave di coalizione.
Su scala locale c’è l’esempio della Spagna, di ritorno alle urne nel luglio del 2023 con lo scenario di un’alleanza fra il Partido popular e la destra nazionalista di Vox. Su scala europea si assiste all’incrinarsi della cosiddetta «maggioranza Ursula», l’asse fra Popolari e Socialisti che alcuni vorrebbero rimpiazzare con la sintonia a destra già descritta sopra.
C’è chi scommette che le urne faranno prevalere la Realpolitik, sancendo una nuova sinergia fra S&D, Ppe e liberali, magari con l’innesto dei soli Conservatori e a fronte di rinunce specifiche sul proprio indirizzo. Eppure la tentazione di un’intesa tutta conservatrice è rimasta nell’aria e potrebbe essere ancora in via di definizione: a un anno dal voto, a 30 dalla discesa in campo dell’uomo politico che sostiene di aver dato vita al (centro)destra da una intuizione. Come ci teneva a precisare lui stesso, la sua.
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