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Bernabè: «Disperdere quanto è stato fatto all’ex Ilva sarebbe un peccato capitale»

Il presidente di Acciaierie d'Italia è fiducioso sul futuro del polo siderurgico, ma non ha dimenticato la lezione imparata da ad dell'Eni: «Nel capitalismo servono i soldi»

di Paolo Bricco

Manager e civil servant. Franco Bernabè è nato nel 1948 a Vipiteno, si è laureato in Scienze politiche a Torino, ha fatto ricerca all'Ocse e ricoperto l'incarico di chief economist in Fiat. È stato amministratore delegato dell'Eni e di Telecom Italia.

6' di lettura

«La mia carta di identità era scaduta. Ero a Roma. Una mattina vado all’anagrafe. Rifaccio il documento. Squilla il cellulare. È Mario Draghi, presidente del Consiglio. Conosco Mario da quando eravamo giovani assistenti universitari negli anni Settanta. Poi, quando io sono diventato amministratore delegato dell’Eni, lui era direttore generale del Tesoro, e abbiamo collaborato intensamente per gestire un periodo di grande trasformazione delle Partecipazioni statali. Mi chiede di occuparmi dell’Ilva. Io rimango un attimo in silenzio. Lui mi spiega che, per una questione così complessa, ho l’esperienza giusta. E ora, con tutte le differenze rispetto alla vicenda dell’Eni, sono qui».

«Qui» è l’acciaieria di Taranto. Nella sala mensa dell’impianto siderurgico si sentono le voci degli operai e delle operaie, il rumore delle forchette e dei coltelli, il tintinnio dei bicchieri e delle caraffe. Tutto amplificato dagli spazi enormi, in una vocalità collettiva che in Italia si sente sempre meno, perché nel Paese delle fabbriche le grandi imprese sono diventate rare.

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Franco Bernabè è un uomo di passioni nascoste, di razionalità manifesta e di analiticità onnipresente. In una delle maggiori concentrazioni di paradossi e di irragionevolezze della storia italiana lui, come presidente di Acciaierie d’Italia, è un apportatore di raziocinio e di misura: «Io sono presidente della holding che controlla le società operative. Ho solo il potere di convocare il consiglio di amministrazione e ho la facoltà di offrire suggerimenti e di esercitare moral suasion», dice mentre ci mettiamo in coda per prendere il vassoio con i lavoratori e le lavoratrici.

Bernabè ha il profilo personale severo ma non arcigno di chi da bambino è cresciuto a Innsbruck, dove il padre era ferroviere nella parte italiana del polo logistico: «Mio papà Bruno e mia mamma Clara decisero di tornare in Italia perché non volevano che io crescessi come un piccolo austriaco. Alla fine delle elementari, le Ferrovie trasferirono mio padre a Torino. Torino era una città durissima. Vivevamo nel quartiere operaio di Borgo San Paolo. Non avevamo né auto, né telefono, né televisore. Alle medie, come austriacante, mi bullizzavano. I miei genitori avevano il pensiero fisso dell’educazione. Risparmiando riuscirono a iscrivermi al ginnasio Richelmy, un istituto privato dei salesiani frequentato dalla buona borghesia. Non mi potevo permettere di pagare il biglietto del tram e, ogni giorno, facevo 40 minuti a piedi all’andata e 40 al ritorno per arrivare al ginnasio. Sulla strada, in una fabbrica dismessa, la Fiat aveva messo a dormire gli operai immigrati. Torino era piena di solitudini. Ed era una città inquinata, fredda, nebbiosa. Tornavo a casa dal liceo e avevo grasso nero sulla pelle». Tanti anni dopo, Paolo Fresco gli avrebbe chiesto di diventare amministratore delegato della Fiat: «Umberto Agnelli si impose con la fortunata scelta di Sergio Marchionne».

Bernabè – classe 1948 – è fra gli ultimi ad avere osservato il cursus honorum formativo più duro del Novecento: «Alla maturità portammo i programmi dei tre anni di liceo. Ho fatto il soldato semplice nei radiotrasmettitori per quindici mesi. L’unica differenza dal percorso tradizionale fu che, al penultimo anno delle superiori, andai negli Stati Uniti, una cosa che nel mio liceo classico venne vissuta come una stramberia quasi deviante. Trascorsi un anno a Portland, in Oregon: all’high-school imparai bene l’inglese e la computer math. Sapere programmare in Basic mi sarebbe stato utile all’università, quando venni coinvolto nel Laboratorio di economia politica Cognetti De Martiis, dove si svolgevano le prime analisi di econometria».

La vita privata e pubblica di Bernabè è stata segnata dalla ricerca dell’ago della ragione con cui tirare il filo della complessità, così da dare un ordine al disordine che Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto de via Merulana definisce «nodo o groviglio, o garbuglio», la metafora applicabile alle esistenze di ognuno e alle vicende di questo Paese chiamato Italia. Bernabè sa, appunto, che cosa significa analizzare e gestire problemi complessi. All’Eni arriva nel 1983 – dopo le esperienze a Parigi all’Ocse e a Torino alla Fiat dove era stato capo economista del dipartimento Pianificazione – chiamato come assistente dall’allora presidente Franco Reviglio, mentre il gruppo era infiltrato dalla P2. Nove anni dopo fa parte di una commissione di riforma dei servizi segreti: «Il presidente della Repubblica Francesco Cossiga mi chiamò perché gli avevano parlato delle mie competenze energetiche e geopolitiche e delle mie posizioni sulla centralità dell’interesse nazionale». Diventa amministratore delegato dell’Eni nel 1992 quando – dopo la fusione con Montedison e l’assalto dei partiti – il gruppo rischia il collasso, con un effetto sistemico profondo e distruttivo sul tessuto industriale, sociale e ambientale italiano.

Terminata la composizione del vassoio con la scelta dei piatti, esco dalla fila e, nell’enorme sala mensa affollata da operai e da operaie, non trovo Bernabè.
Un inserviente, con la democrazia lessicale
propria della civiltà delle fabbriche, mi dice:
«Il collega presidente è lì».

Il codice Eni di allora e il codice Ilva di oggi. Oggi Ilva – rinominata Acciaierie d’Italia – è una questione sistemica significativa. Il suo acciaio serve alla nostra manifattura, soprattutto adesso che – con la crisi della globalizzazione classica – le reti di approvvigionamento si sono accorciate. In caso di chiusura a Taranto si creerebbe una voragine nera da bonificare maggiore dell’irrisolta ferita dell’Italsider di Bagnoli. Trent’anni fa Eni è stata “la” questione italiana. «Oggi – dice Bernabè che, con la sua figura slanciata al limite della magrezza, si inserisce comodamente nei tavolini della mensa – il problema dell’Ilva è duplice. È un problema di finanza di impresa. Ed è un problema di scelte di fondo da parte delle forze di sistema. All’Eni avevamo l’immane compito di ridisegnare il perimetro del gruppo, che aveva assorbito tutti i fallimenti della chimica privata: molti stabilimenti erano obsolescenti ed estremamente inquinanti. Il salvataggio della chimica deve molto al dialogo continuo con i sindacati e soprattutto con Sergio Cofferati, leader dei chimici della Cgil. Anche la magistratura di Milano aveva la preoccupazione di evitare distruzione occupazionale e industriale. Francesco Greco, giovane membro del pool di Mani pulite, era molto sensibile. E tutto questo con la possibilità di esercitare un potere vero e di disporre delle risorse finanziarie. Appena nominato amministratore delegato andai da Giuliano Amato, presidente del Consiglio. Lui mi interruppe subito:
“Non mi devi dire nulla. Tu sei l’amministratore delegato. Hai piena autonomia”. Trovammo i soldi. Nell’autunno del 1993 Eni ebbe una crisi di liquidità. Io feci un road show fra i banchieri di Londra, che ci rinnovarono le linee di credito. Nel 1995 incontrammo il favore degli investitori per la quotazione in Borsa. Il capitalismo si fa con i capitali», ricorda mentre inizia a mangiare penne al pomodoro con formaggio grattugiato. Io, invece, ho scelto un altro classico delle mense aziendali: la pasta in bianco.

Il codice dell’Eni di allora è diverso dal codice Ilva di oggi. Eni aveva una dimensione industriale più vasta: ovunque, in Italia, c’era un suo insediamento. Ilva è concentrata soprattutto in un luogo ultrasensibile come Taranto. Per il salvataggio dell’Eni esisteva un fronte comune fra proprietà-management-sindacato-enti locali-magistratura. Ilva – oltre al nodo del sequestro degli impianti – esprime una energia esplosiva anche nella differenza e nella mutevolezza delle posizioni di chi, a tutti i livelli, è coinvolto. «Per Ilva il primo problema è di finanza di impresa. I 680 milioni stanziati dallo Stato come prestito ponte convertibile sono ancora quelli dell’accordo del 2020: serviranno per pagare i debiti energetici con Eni e Snam, per rimettere in moto alcune attività e, quando il governo Meloni schiaccerà il bottone, per fare andare lo Stato in maggioranza. Nel bilancio dello Stato c’è poi a disposizione l’ulteriore miliardo di euro stanziato dal governo Draghi. Nel capitalismo servono i soldi. Finora l’azienda non è stata bancabile sia per la situazione oggettiva in cui si trova per effetto del sequestro degli impianti, sia per il deconsolidamento dal perimetro del gruppo ArcelorMittal a seguito dell’accordo con lo Stato che ha privato la società dell’accesso alla tesoreria centralizzata. Con l’ulteriore miliardo di euro pubblico, Ilva tornerà a essere un soggetto finanziario e industriale in grado di realizzare un disegno strategico di decarbonizzazione a dieci anni, coerente con il profilo della nuova manifattura europea».

Come secondo, lui ha preso dei fagiolini e io delle zucchine. La mensa inizia a svuotarsi. Bernabè torna a riflettere e a ragionare, ad analizzare e a ponderare: «Oggi l’ambientalizzazione dell’impianto è una delle più avanzate al mondo. Sarebbe un peccato capitale disperdere tutto questo».

La tranquilla forza d’urto di Franco Bernabè nasce dal pensiero, da una particolare forma di assenza di paura e da una intelligenza senza nevrosi. Mentre beviamo il caffè, mi viene in mente quanto Taranto assomigli, nella sua delicatezza, a Fedora, una delle città invisibili di Italo Calvino: «Al centro di Fedora, metropoli di pietra grigia, sta un palazzo di metallo con una sfera di vetro in ogni stanza. Guardando dentro ogni sfera si vede una città azzurra che è il modello di un’altra Fedora. Sono le forme che la città avrebbe potuto prendere se non fosse, per una ragione o per l’altra, diventata come oggi la vediamo». Taranto, con la sua acciaieria di pietra grigia e le sue sfere di vetro piene di nodi aggrovigliati e di paure accumulate, è diventata così. Bisogna, un frammento per volta, ricomporla.

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