Bilancio unico europeo: la riforma che non c'è
di Marcello Minenna
7' di lettura
Circa una settimana fa sono stati rilasciati i dettagli sull'accordo sottoscritto dall'Eurogruppo di costituzione di un budget specifico per l'area Euro e di riforma dei meccanismi di accesso alle linee di liquidità di emergenza del Fondo Salva-Stati (European Stability Mechanism - ESM). L'accordo era stato promosso come primo significativo passo nella direzione di un “vero” bilancio in grado di essere utilizzato per promuovere la crescita dei Paesi membri. Purtroppo, occorre constatare che il passo c'è stato, ma nella direzione sbagliata, proprio mentre l'Eurozona si avvia verso un periodo di forte debolezza economica ed avrebbe bisogno di una politica fiscale efficace. Il convitato di pietra all'Eurogruppo resta il principio del risk-sharing, cioè della condivisione del rischi tra Paesi core e quelli periferici.
Ma andiamo con ordine. Le proposte di riforma confermano sostanzialmente quanto era emerso durante il summit di dicembre 2018, dove l'Eurogruppo ha concordato di rafforzare il ruolo dell'ESM come backstop del Fondo Unico di Risoluzione delle banche ed ha definito i criteri di accesso alle linee di credito precauzionali (Precautionary Conditioned Credit Line - PCCL). Allora ritenni i 5 criteri quali-quantitativi assai rigidi, in grado di porre ostacoli insormontabili a quei Paesi che avrebbero avuto necessità urgente di accedervi. 6 mesi dopo, quei criteri sono stati resi più restrittivi.
In termini semplici, l'ESM concederebbe liquidità senza un accordo preliminare votato all'unanimità dai Paesi contributori soltanto a quei Paesi in grado di garantire una sostenibilità a lungo termine del debito pubblico, una posizione forte nella bilancia dei pagamenti con l'estero e un sistema bancario solido. Nessuno dei difetti metodologici presenti nella bozza di dicembre è stato corretto: il deficit strutturale (e quindi la stima assai controversa dell'output gap) è ancora utilizzato nella determinazione dei criteri di accesso, mentre una simulazione sulla base dei dati macro-economici rilasciati dalla Commissione nella primavera 2019 mostra che 10 dei 19 Paesi dell'Eurozona non potrebbero accedere alle linee di liquidità in caso di bisogno.
Si tratta di un accordo deludente; l'unica speranza (sulla base dell'interpretazione della lettera del Presidente dell'Eurogruppo) è che ci sia ancora spazio di manovra prima della finalizzazione della riforma a dicembre 2019; questi ultimi 6 mesi sarebbero l'ultima chance per riformare il trattato ESM in maniera tale da rendere fruibile l'accesso alle linee di liquidità precauzionali PCCL.
Nel caso lo scontro tra la Commissione Europea ed il governo italiano si prolungasse oltremodo, resterebbe assodato che l'Italia non avrebbe possibilità di accesso alle linee PCCL, dato che i criteri in fase di approvazione richiedono espressamente che il Paese debba accettare senza condizioni le regole di bilancio.
Per quanto riguarda il budget per l'Area Euro, siamo lontani dall'idea che aveva chi si appellava ad una maggiore condivisione dei rischi. Innanzitutto non è prevista nessuna funzione di stabilizzazione anticiclica contro shock economici avversi che potrebbero colpire in maniera asimmetrica solo alcuni Paesi; la posizione politica dell'Eurogruppo sembra essere quella di non nominare questo concetto, nemmeno in termini astratti.
Le cifre stanziate dovrebbero rafforzare l'Unione monetaria esclusivamente supportando un più alto grado di convergenza e competitività tra gli Stati membri. In questa prospettiva l'allocazione dei fondi per Paesi non segue le reali necessità di investimento nelle economie, ma viene determinata sulla base di una “metodologia trasparente” secondo la quale i fondi dovrebbero scostarsi di poco dai contributi effettivamente versati. Il fatto che l'utilizzo del budget possa risolversi in niente più che una partita di giro per i Paesi contribuenti lascia molto perplessi.
Peraltro l'accesso ai finanziamenti dipenderebbe dall'implementazione di riforme strutturali e dal rispetto di condizionalità sullo stato dei conti pubblici; gli Stati membri riceverebbero supporto finanziario a rate, in dipendenza dal raggiungimento di obiettivi intermedi, come è accaduto nell'esecuzione dei programmi di salvataggio di Grecia, Spagna Portogallo ed Irlanda.
Il risultato finale è un ibrido tra lo strumento – già esistente – dei fondi strutturali e dei programmi di aggiustamento dell'ESM. Il tema fondamentale, su cui è tornato nel discorso di Sintra anche il Presidente della BCE, dell'assicurazione europea sui depositi bancari (EDIS) è stato volutamente ignorato. In definitiva, si tratta un compromesso che pare scontentare tutti.
La Francia ha tradizionalmente patrocinato la tesi di un maggiore risk-sharing. Macron, all'atto della sua elezione nell'aprile 2017 richiese un Ministro delle Finanze unico ed un budget separato per l'Eurozona che garantisse un livello minimo di solidarietà e di stabilizzazione dell'economia. Con il passare del tempo però, la posizione francese si è indebolita. La Dichiarazione di Mesemberg che presuntivamente rappresentava una posizione di compromesso con gli interessi tedeschi, ha ufficializzato l'arretramento della Francia sui problemi della stabilizzazione e dell'EDIS. Nel recente appello pubblico agli elettori europei nel marzo 2019 Macron ha lasciato cadere qualsiasi riferimento ai temi controversi della governance macroeconomica dell'Eurozona.
La Germania invece è stata sempre contraria alla creazione di un budget comune e su altre possibile misure di condivisione dei rischi. Un report recente pubblicato dal Consiglio degli esperti economici tedeschi ha argomentato che qualsiasi funzione assicurativa svolta da un bilancio centralizzato è praticamente indistinguibile da trasferimenti quasi-permanenti tra gli Stati membri, un tabù politico invalicabile per Berlino.
Nel frattempo la posizione ufficiale della Spagna (che ha accresciuto la propria influenza sul processo decisionale negli ultimi anni) è prevalentemente allineata su quella tedesca, anche se auspica – in subordine – l'utilizzo di un budget centralizzato anche per funzioni di stabilizzazione a partire dal 2021. Gli altri Paesi dell'Eurozona non hanno né la volontà né la forza di contrastare la Germania sul tema del risk-sharing, escludendo ogni apertura ad una redistribuzione della ricchezza esistente.
A fronte di questo stallo permanente del processo negoziale sulle riforme, l'attuale posizione di scontro frontale dell'Italia appare per certi versi giustificata.
D'altronde il numero degli economisti che invoca a gran voce una maggiore coordinamento delle politiche fiscali ed un più ampio risk-sharing continua a crescere. Poche settimane fa l'ex capo economista del Fondo Monetario Internazionale Blanchard ha ribadito la necessità di rivedere i parametri di Maastricht su debito e deficit in rapporto al PIL, non solo aumentando il livello ammissibile ma anche la velocità di aggiustamento (il famigerato criterio del “ventesimo di rientro”) e la flessibilità nel reagire a periodi protratti di bassa domanda aggregata. Il razionale sta nel perdurante scenario di bassi tassi di interesse ed inflazione che rende il costo di rifinanziamento del debito molto basso.
Secondo Blanchard un'espansione fiscale unilaterale da parte di un Paese sarebbe poco utile perché gran parte dello stimolo sarebbe trasferita all'estero tramite maggiori importazioni. Lo stimolo fiscale dovrebbe pertanto essere coordinato a livello europeo; soluzioni di compromesso sarebbero certamente sempre sotto-dimensionate rispetto alle reali esigenze dell'economia. L'unica soluzione passerebbe attraverso un budget centralizzato dell'Eurozona finanziato attraverso Eurobonds, cioè titoli di debito garantito congiuntamente da tutti i Paesi dell'Eurozona. Un'idea combattuta dalla stragrande maggioranza dei Paesi dell'Unione, a parte forse un debole sostegno in linea teorica della Francia.
Da questo dato di fatto nasce l'idea sviluppata alcuni mesi fa con gli economisti Giovanni Dosi, Andrea Roventini e Roberto Violi, che punta ad una graduale “condivisione dei rischi” sul debito pubblico dell'Eurozona, da attuarsi su un orizzonte di 10 anni tramite una riforma mirata del Fondo ESM (cfr. Figura 2). In sostanza, se l'emissione di un debito condiviso è da escludersi dato il contesto politico attuale, l'ipotesi di un'assicurazione comune sul debito in rifinanziamento ha sicuramente più chances.
Ognuno paga da sé, come è politicamente desiderabile, il proprio debito ed un premio assicurativo determinato attraverso strumenti di mercato (i credit default swap o CDS), ma la garanzia interviene in caso di difficoltà finanziarie. In questa maniera lo spread tra i titoli dei diversi Paesi tenderebbe a scomparire nel tempo mentre con il sistema a regime, le probabilità di un “cigno nero” per l'Eurozona ora espresse dal rischio di ridenominazione presente nei rendimenti dei titoli di Stato di Italia ed altri Paesi tenderebbero spontaneamente a sparire. Come si vede, non serve ab origine né un budget federale, né tantomeno l'Unione politica. In un'ottica negoziale si può rinunciare anche al progetto di un debito unico tenendo in piedi il meccanismo di assicurazione.
L'unico requisito è la volontà politica di condividere gradualmente costi (che sarebbero di mercato) e benefici, implementando de facto un minimo sistema di trasferimenti dai Paesi forti a quelli deboli che rinforzerebbe le fondamenta dell'Unione. La remunerazione ottenuta dall'ESM attraverso i premi verrebbe usata a supporto di emissioni obbligazionarie funzionali ad avviare un grande piano di investimenti nell'Eurozona, in modo da creare de facto una golden rule per gli investimenti che integri costruttivamente l'algebra del Six Pack e del Fiscal Compact.
Il debito condiviso (oltre 10.000 miliardi) fungerebbe naturalmente da safe asset a rischi condivisi, cioè da titolo con minimo rischio di credito che possa essere utilizzato come bene-rifugio dagli investitori e come collaterale nel credito interbancario e nei rapporti con la banca centrale. Al momento questo ruolo è svolto dai Bund tedeschi per via della bassissima rischiosità, e ciò garantisce privilegi in termini di rendimenti negativi all'emittente Germania. Anche per questa asimmetria, il sistema non funziona in maniera ottimale. I Bund sono scarsi, troppo costosi per le esigenze del sistema finanziario europeo e tassi di interesse troppo diversi hanno alterato la competitività dei sistemi manifatturieri nazionali. Come riconosciuto anche dell'European Systemic Risk Board nella prospettiva del completamento della Capital Markets Union, continuare ad usare il Bund come surrogato di un vero safe asset è incompatibile con la piena mobilità dei capitali e la stabilità finanziaria.
Tecnicamente si può fare, come dimostra una recente ricerca di Banca d'Italia che sviluppa lo stesso concetto con una metodologia lievemente diversa: meccanismi di assicurazione sono stati impiegati con successo durante le passate crisi bancarie, quando le banche negli USA ed in Europa hanno approfittato delle garanzie pubbliche; peraltro ogni schema di assicurazione dei depositi bancari nazionali si basa sullo stesso principio. Inoltre il c.d. “credit enhancement” – una forma di assicurazione di titoli governativi – è stato applicato alle obbligazioni greche ristrutturate dopo l'insolvenza del 2012. Per ridurre al minimo gli inevitabili problemi di moral hazard intrinseci in ogni meccanismo di assicurazione, ogni Paese dovrebbe aderire ad una ragionevole disciplina fiscale che ponga chiari limiti di deficit al netto dei premi di assicurazione versati, fino ad un vero pareggio di bilancio.
È minore la strada da fare per venirsi incontro con soluzioni condivise rispetto alla dissoluzione di 50 anni di integrazione. Si può sempre sperare che le parti in causa lo riconoscano.
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