Bini Smaghi (SocGen): «Servono alleanze tra le grandi banche, l’Europa contrasti gli Usa»
di Alessandro Graziani
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«Creare campioni europei nell’industria e anche nel settore bancario è necessario se si vuole competere con efficacia sui mercati mondiali. La dimensione è decisiva per la redditività e la crescita passerà anche attraverso fusioni tra gruppi di Paesi diversi. Se penso all’asse Italia-Francia, le aggregazioni tra Luxottica ed Essilor e prima tra Gucci e Kering hanno creato campioni globali. In prospettiva credo che siano possibili anche analoghe alleanze tra banche - in generale in Europa e quindi senza escluderne tra Italia e Francia - con merger of equals a cui dovremo guardare senza paure o complessi di inferiorità». Il banchiere italiano Lorenzo Bini Smaghi, 61 anni, ex membro italiano del consiglio direttivo della Bce, è stato confermato ieri dall’assemblea degli azionisti alla presidenza del gruppo bancario francese Société Générale con il 93% dei voti. Un secondo mandato di quattro anni durante i quali la banca potrebbe trovarsi alle prese - insieme alle altre big europee - con una nuova fase del processo di consolidamento anche crossborder.
SocGen ha varato da pochi mesi un nuovo piano industriale triennale “stand alone”. Ma se prima dovesse presentarsi l’opportunità di un’alleanza la valutereste? Sul mercato da tempo si ipotizza un merger con UniCredit. Cosa può dire?
Non entro nel merito di ipotesi di mercato. Quello che posso dire è che - a livello strategico - le aggregazioni sono sempre oggetto di valutazione. Ma i tempi non sembrano maturi. E dipendono dalla valutazione di una serie di variabili: la valorizzazione di Borsa, l’analisi delle sinergie, l’atteggiamento della Vigilanza e l’evoluzione delle regole.
Quali sono gli ostacoli più evidenti alla concentrazione a livello europeo?
Gli ostacoli principali sono due. Il primo è di natura regolamentare: nonostante la creazione del Ssm, le autorità nazionali dispongono ancora di molti poteri discrezionali, che rendono difficile per le banche poter impiegare la liquidità e il capitale nel modo più efficiente, soprattutto all’interno dell’area dell’euro. Il secondo ostacolo riguarda le sinergie, che sono limitate dalla diversità dei modelli bancari e dalle leggi: un mutuo è diverso in Italia rispetto all’Olanda o alla Spagna. La tecnologia potrà ridurre queste barriere in futuro, ma ancora i vantaggi di fusioni transfrontaliere rimangono limitati. Tranne nelle banche d’investimento, che però in Europa sono poche e sotto pressione da parte dei grandi istituti americani.
Proprio la crescita dei big americani in Europa, però, evidenzia come la dimensione e la redditività siano elementi sempre più decisivi anche nel settore bancario. Se il gap dimensionale non verrà colmato, il nascente mercato unico europeo dei capitali rischia di essere dominato dai colossi Usa. Non crede?
È vero. Ed è paradossale perché la crisi finanziaria è nata negli Usa dieci anni fa, ma ad uscirne ridimensionate sono state le banche europee mentre i colossi Usa prosperano e, grazie alla loro profittabilità sul mercato americano, operano con successo su quello europeo con grandi vantaggi. Ma è un illusione pensare che il mercato europeo dei capitali possa svilupparsi solo con le banche Usa.
La responsabilità è della politica europea, ancora troppo condizionata dalle diffidenze nazionali?
La premessa è che in Europa il mercato dei capitali è ancora troppo piccolo e non sostiene ancora il sistema produttivo, in particolare quello delle piccole e medie imprese. Se si vuole sviluppare un vero mercato dei capitali, c’è bisogno di attori paneuropei, in larga parte bancari, che siano in grado di portare le aziende sul mercato e di garantire la liquidità dei prodotti, come avviene negli Stati Uniti. Le grandi banche americane, che sono il cuore del sistema finanziario statunitense, sono banche universali che fanno attività di finanziamento, originazione e strutturazione di prodotti sul mercato. In Europa non c’è ancora una visione strategica del ruolo che deve avere il sistema finanziario, in particolare le banche, a sostegno dell’economia. Negli Stati Uniti e in Cina, invece, la visione è chiara e il ruolo fondamentale viene svolto dai grandi attori nazionali.
L’Europa, però, sta soffrendo una crisi di crescita. E le diffidenze nazionali aumentano anche nel mondo del business, basti vedere quanto accaduto di recente sull’asse Italia-Francia nelle vicende Fincantieri-Naval Group e Vivendi-Tim-Mediaset. Con queste premesse, crede davvero che sia realistico pensare in Europa ad aggregazioni tra banche di vari Paesi?
Se si vuole sostenere l’attività delle proprie imprese e del proprio sistema finanziario, bisogna pensare europeo, non più italiano, francese o tedesco. La dimensione della competizione internazionale è tra continenti. Lo si vede chiaramente con la Brexit. In questo contesto, difendere l’italianità o la francesità non ha senso, anche perché la proprietà delle grandi imprese è diffusa, riguarda i grandi fondi che gestiscono il risparmio mondiale e guardano alla sostenibilità dei modelli aziendali.
Vale anche per le grandi banche?
Ne sono convinto. Una banca locale ha meno prospettive di crescita di una che opera a livello globale, e per questo è meglio far parte di gruppi internazionali. Per sostenere le aziende italiane che esportano e investono nel mondo c’è bisogno di banche che siano presenti a livello internazionale e che offrano servizi globali.
Torniamo alla crisi bancaria degli ultimi dieci anni, che ha fatto emergere l’azzardo morale di alcuni banchieri. Ritiene che la nuova regolamentazione eviterà nuove crisi?
La fase di nuova regolamentazione post-crisi è stata completata. Bisogna chiedersi se sono cambiati i comportamenti dei banchieri e se le autorità di Vigilanza hanno ora gli strumenti adeguati per verificare che la crisi non si ripeta.
Molto è stato fatto, tanto che c’è chi critica l’eccesso di nuove regole in Europa. Che ne pensa, soprattutto in riferimento all’Italia?
Molto è stato fatto, ma vedo ancora due elementi di preoccupazione. Il primo, alquanto sorprendente, è che in Italia non siano ancora stati emanati dal ministero dell’Economia i regolamenti attuativi che riguardano l’applicazione delle direttive europee sui criteri di onorabilità degli amministratori. Di conseguenza la Banca d’Italia, contrariamente alle altre autorità europee, non dispone ancora di uno strumento essenziale per prevenire la “mala gestio” da parte dei vertici delle banche. La politica critica le istituzioni, ma poi non si assume le responsabilità di dotarle degli strumenti necessari per fare il loro lavoro.
Parlava di un secondo elemento di preoccupazione. A cosa si riferisce?
Le banche italiane devono usare l’attuale fase di crescita economica e di ampia liquidità per ripulire rapidamente i bilanci dagli Npl. Le banche maggiori l’hanno fatto con efficacia. Altre lo stanno facendo, forse troppo lentamente, forse per timore di rivelare al mercato l’entità delle perdite e dover far ricorso a nuovi aumenti di capitale. Non si capisce che, più si aspetta, più aumenta la necessità di nuovo capitale e le valutazioni azionarie si deprimono. L’esperienza di banche che si sono mosse in direzione opposta, come UniCredit, dimostra invece che una pulitura rapida dei bilanci accoppiata con aumento di capitale ripaga, anche i vecchi azionisti.
In Italia è diffusa l’idea che la Vigilanza bancaria europea di Bce sia ossessionata dal problema degli Npl e trascuri i rischi finanziari dei level 2 e level 3 asset in pancia alle banche francesi e tedesche. Lei è d’accordo?
La Bce sta facendo un ottimo lavoro su tutti i campi, senza disparità di trattamento. Vedo in Italia la tendenza ad un atteggiamento vittimistico, non molto utile per la credibilità del paese. Mi sembra peraltro che il dibattito su questi strumenti L2/L3 venga spesso affrontato senza una adeguata conoscenza del problema.
L’Italia si appresta ad avere un nuovo Governo a maggioranza “sovranista”. Sui mercati si apre una fase di instabilità? Da italiano al vertice di un grande gruppo francese, vede il rischio di una frenata degli investimenti esteri?
Chi investe, nell’economia reale o in titoli di stato, cerca sempre di evitare di subire perdite, come quelle che potrebbero avvenire nel caso di un aumento dello spread, per effetto di politiche di bilancio non rigorose, oppure da misure fiscali vessatorie o da una uscita dall’euro. Prima si fa chiarezza che tutto questo non succederà, prima si stabilizzerà la situazione e riprenderà il flusso di investimenti.
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