Birkenstock, una storia secolare di plantari alla conquista delle passerelle. Il ceo: «Ora puntiamo al miliardo»
di Chiara Beghelli
3' di lettura
«Se continua così supereremo 1 miliardo di euro di vendite entro i prossimi due anni»: ha buone ragioni per essere ottimista Oliver Reichert, ceo di Birkenstock insieme a Markus Bensberg dal 2013. È stato proprio quello l’anno in cui l’azienda tedesca con sede a Neustadt, celebre per i suoi sandali con plantare in sughero, ha aperto un nuovo capitolo della sua lunga storia, iniziata nel 1774 in una cittadina dell’Assia con il “ciabattino” Johann Adam Birkenstock.
Nel 2013, infatti, Phoebe Philo di Céline vestì di visone i sandali Arizona di Birkenstock e aprì loro la strada della moda. Che il mese scorso ha toccato le sue ultime due tappe: la collezione menswear di Valentino (con l’Arizona proposta nel celebre “rosso” e con la scritta VLTN) e la seconda capsule firmata Rick Owens, che segue il successo della prima lanciata per la primavera-estate 2018.
Valentino e Owens rappresentano un mondo lontano anni luce da quello degli hippie anni Sessanta che resero celebri quei sandali (dalle “derive” farmaceutiche) e che dimostra come l’azienda abbia trovato la chiave della sua crescita nel sapersi rinnovare senza perdere la sua identità. Fra 2012 e 2016 le vendite sono triplicate, a 750 milioni di euro. E ora, appunto, Reichert punta al miliardo. Le tappe più recenti di questo viaggio passano, oltre che dal prodotto, anche da investimenti di altro genere: sempre a gennaio Birkenstock ha inaugurato una nuova sede a Parigi, peraltro in Rue Saint-Honoré, che ha l’ambizioso obiettivo di essere anche incubatore di nuove collaboarazioni e progetti; allo scorso ottobre, invece, risale l’apertura del primo flagship negli Stati Uniti, in un altro quartiere capitale della moda, Soho a New York.
A sostenere le vendite anche il sito, lanciato tre anni fa, e la nuova piattaforma 1774.com, dove si raccontano i progetti speciali e dove presto sarà in vendita la collezione 1774. Ma Birkenstock ha fatto un passo in più, puntando a diventare brand lifestyle attraverso il lancio di una linea di bedding e di una di cosmetici (dove viene usato anche estratto di sughero, che richiama le suole dei sandali): «Abbiamo appena lanciato la nostra seconda collezione di sistemi per dormire -nota il ceo -. Non si tratta di marketing per attrarre il cliente, ma di applicare i nostri stessi valori a tutte le categorie, un’alta qualità, un’alta artigianalità (per fare un sandalo occorrono 100 movimenti di mani esperte, lungo 17 fasi di produzione, nda) e l’autenticità. I cosmetici li abbiamo sviluppati in house e li lanceremo in modo più ampio quest’anno».
«Nel 2018 abbiamo venduto 25 milioni di paia. Che sia con lo streetwear, la couture o l’architettura, vogliamo proporci con associazioni rilevanti ma preservando la nostra anima. Pierpaolo Piccioli ha deciso di riflettere sull’inclusività anche lavorando con il nostro Arizona», prosegue Reichert. Il ceo ha le idee chiare e non usa mezzi termini nelle sue opinioni: lo ha fatto anche quando ha commentato il gran rifiuto di Birkenstock a una collaborazione con Supreme, il marchio con cui tutto il lusso, o quasi, oggi vorrebbe collaborare, la gallina delle uova d’oro dello streetwear.
«Puntare su Millennials o Gen Z è un affare di marketing. Non abbiamo bisogno neppure di uno storytelling, imposto dal marketing, sulla sostenibilità. Usiamo da sempre sughero, lattice, pelle, lana, rame, tutti elementi naturali». Birkenstock è fra le più grandi aziende tedesche: ha circa 4mila dipendenti, nove stabilimenti distrubuiti in quasi tutto il Paese, ed è ancora della famiglia fondatrice, giunta alla sesta generazione. Nello stile del suo ceo, nel company profile non si teme di essere troppo diretti dicendo che l’azienda offre un’alternativa «in un mondo domintao da prodotti a basso costo provenienti da economie con ridotti livelli salariali e frutto di un consumismo schiacciante legato al prezzo di prodotti a basso costo provenienti da economie con ridotti livelli salariali».
Anche questo tipo di autenticità è un modo per differenziarsi: «L’ideale di bellezza è cambiato. Oggi è ciò che fa stare bene la gente e i marchi devono ascoltare con attenzione i loro clienti. Soprattutto le donne stanno iniziando a rompere le convenzioni e i diktat della moda», conclude il ceo -. Da parte nostra, continueremo a fare quello che già facciamo quasi da due secoli e mezzo».
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