sardegna

Birrificio Ichnusa diventa hi-tech: i robot entrano in fabbrica

Una nuova linea dedicata al vuoto a rendere: bottiglie sanificate e riutilizzate

di Davide Madeddu

4' di lettura

Non solo birra. Ma l’altra faccia di una Sardegna che produce e cresce, arriva oltremare e racconta una terra “orgogliosa e fiera”. Perché dietro lo slogan “anima sarda” c’è un lungo lavoro in cui tradizione e innovazione si sposano in un cammino che mette assieme passione e ricerca della perfezione. Impegno che contraddistingue e caratterizza la squadra di operatori impegnati all’interno dello stabilimento dell’Ichnusa, il birrificio industriale presente in Sardegna e considerato simbolo dell’isola.

A Macchiareddu, nell’area industriale di Assemini (una quindicina di chilometri a Cagliari) tra il Parco naturalistico di Monte Arcosu e le saline e con sullo sfondo lo specchio di mare che da Cagliari si spinge sino a Sarroch, nasce la birra sarda. Tra gli impianti circondati da spazi verdi curati in maniera quasi maniacale (così come le indicazioni e i protocolli per la sicurezza) ogni giorno si lavora per produrre le quattro qualità di birra (Ichnusa Anima Sarda, Ichnusa Cruda, Ichnusa Limone e Ichnusa Non Filtrata) che arrivano in tutta la Sardegna e in buona parte della penisola. Il tutto seguendo il cammino iniziato nel 1912 con la nascita del primo birrificio Ichnusa acquisito poi dall’imprenditore Amsicora Capra. Poi negli anni 60 il trasferimento a Macchiareddu e l’insediamento in una zona particolarmente ricca di falde acquifere e l’acquisizione nel 1986 da parte di Heineken Italia. Proprio l’acqua è uno degli elementi che contribuiscono al successo del prodotto.

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«L’acqua conta per il 92% del prodotto - premette Luigi Paciulli, mastro birraio da 35 anni, e uno dei responsabili dell’intero sistema di produzione-. Quella che utilizziamo e che arriva dalle montagne del Sulcis è eccellente». Poi c’è l’intero sistema di lavoro in un’azienda che punta su formazione e sicurezza. E in cui anche gli operai sono abituati a mettersi in gioco. Non è certo un caso che nell’etichetta posteriore delle bottiglie ci sia la foto di gruppo di tutti i lavoratori. «Diciamo pure che ci mettiamo la faccia – aggiunge Paciulli – perché questo è un lavoro che ci piace e qui stiamo veramente bene».

Industria che è una seconda famiglia per i lavoratori che quotidianamente animano i capannoni in cui si lavora per preparare e imbottigliare la birra che finisce sulle tavole. Dal lavaggio e sanificazione dei vuoti a rendere alle etichette delle nuove vuoto a perdere. L’aspetto green è uno degli elementi di soddisfazione dell’azienda che ha visto crescere il numero di occupati di circa il venti per cento nell’arco di due anni. «Dal 2013 al 2018 siamo riusciti a ridurre del 60% le emissioni di anidride carbonica – precisa il direttore Matteo Borocci -, del 22% il consumo di energia elettrica, del 36% quella termica e del 12% il consumo d’acqua». Frutto di un percorso che ha cercato di valorizzare sia la tradizione, sia l’innovazione e la tecnologia con l’obiettivo di mantenere uno standard “sempre molto alto”. In programma anche investimenti per l’utilizzo del Gnl mentre buona parte dell’energia utilizzata arriva da fonti rinnovabili.

Birrificio all’avanguardia per gli standard degli anni 60 è stato il «primo in Italia ad aver installato i serbatoi di fermentazione verticali cilindro conici». Oggi i fiori all’occhiello del birrificio sono i due robot installati sulla nuova linea di produzione per il confezionamento delle casse in plastica, la riempitrice con 132 rubinetti e un meccanismo di “tappatura” all’avanguardia. Una linea nuova, attiva dal 2019, è poi dedicata al formato vuoto a rendere. Le bottiglie utilizzate che rientrano in stabilimento vengono sanificate e poi riutilizzate. Scelta legata alla campagna “vuoto a buon rendere” lanciata recentemente e che vuole rilanciare la pratica del vuoto da restituire che, come sottolineano in azienda altrove è andata persa ma in Sardegna resiste ancora ed è una tradizione virtuosa.

«In media un vuoto dura 25 anni – argomenta ancora il direttore – e questo sistema ci permette di avere un risparmio di un terzo di gas a effetto serra. E ogni bottiglia restituita è una bottiglia non abbandonata».

Non solo, legato alla campagna “buon vuoto a rendere”, bottiglie con tappo verde e collarino dedicato, c'è anche un risvolto occupazionale: «da quando è stata avviata – argomenta ancora Borocci – c’è stato un aumento dell’occupazione del 20%». Lo stabilimento garantisce occupazione a 97 figure stabili, (l’età media è di 46 anni e 18 di servizio) e trenta stagionali. Eppoi la campagna promozionale accompagnata da una distribuzione nel resto d’Italia, che ha fatto crescere produzione e vendita.

Il tutto attraverso un sistema in cui, come spiega Katia Pantaleo, direttrice marketing, «non racconta solo una birra ma la Sardegna». Orgoglio e fierezza ma anche “eccellenza e lavoro”. E attenzione per l’ambiente, che si esplicita sia con le iniziative legate alla vendita (è il caso dei bicchieri in vetro interamente riciclato) oppure le giornate, in collaborazione con Legambiente, dedicate alla pulizia di spiagge o spazi pubblici, comprese le iniziative a sostegno del parco dell'Asinara. E lo sguardo ai giovani e ai talenti che arrivano dall'università. Una sfida in crescendo per una birra che, alla fine, non è solo birra.

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