Black Mirror, tutto quello che c’è da sapere prima della quinta stagione
di Lorenzo Fantoni
5' di lettura
Il cuore di Black Mirror è sempre stata non tanto la tecnologia, ma l’intersezione tra quest’ultima e l’umano, con una particolare predilezione verso gli scenari catastrofici. In passato Charlie Brooker sfruttava una lente distorta che puntava a un futuro lontano, in cui tecnologie impossibili, ma basate su intuizioni del presente, portavano alle estreme conseguenze le storture che iniziamo a vivere oggi. Era un po’ come vedere un osso fratturato e non ricomposto guarire da solo in maniera sbagliata e portare a una inevitabile zoppia.
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Col tempo la prospettiva si è avvicinata e Black Mirror è passato dall’essere un commentario sul futuro a un documentario sul presente. D’altronde quando collochi la tua visione in un futuro abbastanza vicino dall’essere possibile prima o poi la raggiungi. Anche il vetriolo con cui venivano condite le puntate è un po’ andato scemando e il risultato sono stati episodi come San Junipero: struggente, nostalgico, ma di sicuro non troppo inquietante, se non nell’ultima carrellata sui server pieni di umanità deceduta e salvata nel cloud.
Q uesti tre episodi arrivano dopo il divertissement di
Impossibile discutere dei tre episodi senza andare un po’ a scavare all’interno di trama e significati, quindi sappiate che se volete guardarli senza sapere assolutamente niente, qua sotto troverete qualche piccolo spoiler, il minimo sindacale per non lasciare un testo vuoto e vago.
Il primo episodio, Smithereens, rientra in una sorta di rito di Black Mirror: quello degli episodi raccolti, ambientati in uno spazio piccolissimo, tendenzialmente un’auto. L’episodio è forse quello meno avveniristico, si regge in gran parte sulla prova attoriale di Andrew Scott, già Moriarty in Sherlock e parroco pieno di tentazioni nella seconda stagione di Fleabag, e su una inquietudine che in Italia viviamo poco, ma che è abbastanza presente nella mente dei molti utenti di Uber negli Stati Uniti: chi è questa persona che mi sta portando in macchina?
Al di là di una sorta di Zuckerberg benevolo che assolve fin troppo la figura di chi progetta un social network, Smithereens ci mette distrattamente di fronte all’uso delle nostre informazioni personali, ma soprattutto di fronte al dipanarsi di una matassa di sensi di colpa che si trova al cuore dell’episodio.
I social network sono macchine pensate per distrarci e sfruttano la continua presenza degli smartphone attorno a noi per ottenere il loro scopo. Di solito non paghiamo il prezzo della nostra distrazione, se non in qualche sguardo torvo di chi tenta di parlarci, ma in altri casi va molto peggio e, a quel punto, di chi è la colpa? Nostra? Di chi ha creato l’ecosistema? L’episodio non ci dà una risposta, ci lascia soli con le nostre riflessioni e non ci dice nemmeno come va realmente a finire.
Chiudiamo con
La parte più potente dell’episodio è forse quella meno in linea con
Alla fine di questo trittico sia l’impressione che il Black Mirror degli inizi sia ormai qualcosa del passato. D’altronde quando racconti le inquietudini del futuro presente puoi arrivare fino a un certo punto prima di ripeterti.
Ormai Black Mirror è diventato un meme, un tormentone, una etichetta da affibbiare a tutti quei momenti in cui il perturbante si mischia al tecnologico e non percepiamo più il progresso solo come spostamento in avanti, ma come trasformazione in qualcosa che non è automaticamente migliore. Come tutte le cose usate troppo spesso, alla fine si perde nel flusso.
Ma anche se i messaggi sono forse un po’ depotenziati sotto si intuisce ancora la capacità di Charlie Brooker di prendere i nostri difetti, le nostre manie e le storture del sistema in cui viviamo per mettercele di fronte, rendendole impossibili da ignorare. Almeno fino alla prossima notifica.
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