Bologna 40 anni dopo: «Il lutto è comune, la verità ancora no»
Paolo Bolognesi rappresenta le vittime della strage della Stazione, uno degli snodi della storia d’Italia
di Raffaella Calandra
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Dicono che c’è un tempo per seminare. E uno, che stai lì ad aspettare. Questo, per le 85 vittime del 2 agosto 1980, per Paolo Bolognesi e per quanti hanno subìto il più grave attentato commesso in Italia in era di pace, è «il tempo della verità possibile. Anche se non ancora condivisa», sussurra il presidente dell’Associazione familiari delle vittime della strage di Bologna. Tradiscono un velo di amarezza le sue parole, nonostante la «soddisfazione» per l’incontro che giovedì 30 luglio avrà col presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il primo a tornare sotto le Due Torri, a ridosso dell’anniversario, dopo quell’estate drammatica. «Una visita molto importante, per noi – spiega Bolognesi – significa vicinanza al nostro dolore, ma anche ai magistrati che hanno portato le indagini a sviluppi significativi».
Sembrava un traguardo impossibile andare oltre il primo livello di responsabilità, invece, «dopo decenni di depistaggi, per la prima volta oltre agli esecutori, si stanno identificando mandanti e ideatori dell’attentato. E quella verità giudiziaria potrà far ripartire altre inchieste». La stazione di Bologna, come snodo dunque della storia tragica d’Italia.
Sul primo binario, c’è il caldo soffocante di ogni estate felsinea, mentre l’altoparlante annuncia l’Intercity per Rimini. La sala d’attesa non è ancora tornata ad accogliere i viaggiatori, chiusa dalle norme anti contagio e divenuta luogo per isolare passeggeri sospetti. «A marzo, la Protezione civile mi chiese la disponibilità ad usarla», spiega Bolognesi. Dal 1996, alla morte del fondatore dell’associazione Torquato Secci, tocca a lui dare voce alle famiglie unite da quella data, cicatrice viva sulla pelle della città. Come lo squarcio nel muro della sala d’attesa, con le foto delle macerie, il cratere nel pavimento, l’elenco dei caduti.
Qui, la vita di ieri non ha mai smesso di incrociare quella di oggi. Maria Fresu e sua figlia Angela, 3 anni, quel sabato erano in partenza per le vacanze, come ora un’altra mamma con la bimba nel marsupio, ferma davanti alla porta. «Per questo, la stazione verrà intitolata 2 agosto 1980», anticipa Bolognesi. Le Ferrovie hanno raccolto la richiesta di Comune e Associazione, così è pronta una targa, da scoprire all’ingresso della stazione, con le date e la dedica alle vittime della strage. Ma non è possibile, per le Fs, modificare il nome di Bologna centrale. «Noi invece vorremmo che chiunque arrivasse qui, sapesse anche dal biglietto – argomenta Bolognesi – cos’è successo».
Hanno la rapidità di una didascalia le spiegazioni di quest’uomo dai capelli brizzolati e i modi galanti, che da 24 anni «studia atti, impara meccanismi della giustizia e si scontra con quelli dell’intelligence, per essere la sintesi di tante persone, investite da un unico destino 40 anni fa».
Erano le 10.25 del primo sabato di agosto, quando all’improvviso la stazione sparì. Al suo posto, una nube di polvere si levò dalle macerie. «Prima silenzio inquietante, poi urla». Il tritolo, nascosto in una valigia, scaraventò Bologna in guerra, 36 giorni dopo i misteri del volo Dc9. Ai familiari dei caduti di quell’estate 1980, prima nei cieli di Ustica poi alla stazione, il capo dello Stato porterà la sua vicinanza. Quell’agosto così lontano cambiò la vita dell’Italia e di Paolo Bolognesi, fino ad allora «tranquillo funzionario di una società di prestiti del mondo cooperativo. Partecipavo alle manifestazioni per la strage dell’Italicus, ma poco sapevo di terrorismo», ammette. Quel giorno, stava rientrando da Basilea, dopo cure mediche per la moglie Daniela. Sarebbero ripartiti per la montagna. L’esplosione investì la suocera, «riconosciuta per la doppia fede al dito; a mia madre – racconta– per anni sono stati estratti vetri; identificai mio figlio dalla voglia sulla pancia». La lotta per la vita di quel bimbo commosse il capo dello Stato, Sandro Pertini: Marco alla fine ce l’ha fatta. Il nome della nonna materna, invece, Vincenzina Sala, è con gli altri, sulla lapide davanti a cui si inginocchiò Giovanni Paolo II. A lungo, questa è stata la prima immagine di Bologna in treno, prima che l’alta velocità separasse i percorsi dei viaggiatori. La memoria di quel giorno per Bolognesi è ancorata al «vento improvviso, seguito da un busso fortissimo. Poi solo corpi ammassati. Quando una volta vidi dei manichini sovrapposti in un magazzino, svenni». Troppi erano i morti, da essere trasportati dall’autobus 37. «Come le vittime del covid sui camion dell’esercito». Fu dei 200 feriti, invece, che volle parlare Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli. Di coloro che portano dentro quelle macerie, custodite nella caserma di via Prati di Caprara. «Non volevamo un museo, un luogo solo della commozione, ma uno spazio di memoria attiva», spiega Bolognesi. E con questa filosofia è stato avviato «un concorso di idee, per trovare il modo migliore di informare». Un’urgenza, avvertita sempre di più, davanti «ai tentativi di confondere l’opinione pubblica, quest’anno più che mai», attacca. Questo in fondo l’obiettivo dell’associazione 2 agosto: «Ottenere con ogni iniziativa– recita lo statuto, evocato dal presidente – la giustizia dovuta». E la giustizia, per il tempo negato alle vittime, passa non solo per i tribunali, ma attraverso la trasmissione del sapere, sulla strategia della tensione, sui processi, su segreti di Stato e depistaggi.
Bolognesi vorrebbe che per i più giovani non fosse più «un confuso sentito dire la conoscenza dei fatti», come invece spesso è stato documentato. Eppure, la matrice neofascista della strage è scolpita nella pietra e certificata dalle sentenze per gli esecutori materiali, Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini, ex militanti dei Nar e poi, per concorso – condannato in primo grado –, Gilberto Cavallini. «Ma per la prima volta, ci sono elementi concreti nel fascicolo sui mandanti», puntualizza Bolognesi, con la soddisfazione di chi ha molto atteso questo momento, dopo aver molto cercato. Il «salto in avanti è stato possibile anche grazie alla digitalizzazione degli atti, che deve essere incrementata – marca – come diremo a Mattarella, a cui sottoporremo la necessità della piena attuazione della direttiva Renzi sulla desecretazione dei documenti e il nodo dei risarcimenti per i familiari dei feriti poi deceduti».
La svolta nelle indagini è rappresentata dalla richiesta di rinvio a giudizio della Procura Generale per Paolo Bellini, ex di Avanguardia Nazionale, «mentre è nella P2 di Licio Gelli che vanno individuati mandanti e finanziatori». Nomi entrati nella quotidianità di Bolognesi, che solo una volta durante il colloquio gonfia di irritazione la voce. Davanti alle ricorrenti ipotesi della pista palestinese o della ottantaseiesima vittima. «Perché non 87? Fu una carneficina, per questo si trovano resti confusi. Agitare queste voci è sensazionalismo, abbiamo a che fare – taglia corto – con l’arroganza del potere». La rabbia rende ancora più strascicata la cadenza di quest’uomo di 76 anni, nato a Monghidoro e cresciuto nell’era del Partito Comunista. «Dopo, non ho più avuto tessere di partito», specifica, nonostante i cinque anni da deputato Pd. Loro sono «quelli abituati a non rendere conto, ma i processi stanno arrivando a quanti avrebbero dovuto impedire la strage, i nostri servizi segreti – è esplicito – hanno invece coperto l’attentato. E ora che potrebbero rispondere di quell’operato, c’è come un formicaio impazzito. Se ancora avvengono depistaggi significa che quei segreti non possono essere svelati». Serve tenacia e «incrollabile fiducia nonostante tutto», per fare in modo che verità e giustizia non diventino slogan vuoti. Soprattutto in Italia, dove la memoria spesso non diventa storia, perché priva della coscienza condivisa. «Mi aspetto che la visita di Mattarella significhi “ragazzi, proseguite in questa direzione”. Fino ad ora, il lutto è stato comune, la verità invece no», sospira Bolognesi.
Il nodo non sono le idee politiche: «Anche all’interno dell’associazione le sensibilità sono diverse, ma la battaglia è unica. E io ho amici di infanzia, con cui facevo a botte, che però ora sono con noi, visto quanto accertato sulla matrice della strage». Le spaccature del Paese, Bolognesi le ha viste dal palco delle commemorazioni, nei fischi ai rappresentanti del Governo, nelle spalle girate e nell’eco di altre contestazioni. Ma si è sempre «sforzato di assicurare a quel momento solo la solennità dell’omaggio alle vittime. Non abbiamo mai cacciato nessuno, anche col centro destra». Non sono stati quelli i momenti più difficili, ma «lo scoramento dopo le assoluzioni nel primo processo d’appello. E poi la fase del perdonismo». Chiama così quel tempo in cui si chiedeva «ai familiari delle vittime di parlare con Mambro e Fioravanti e nascevano comitati di difesa: il perdono è privato, è altro rispetto al bisogno di giustizia». In comune hanno il dolore, con cui Bologna ha forgiato la sua identità. Dall’Italicus a Ustica, dalla stazione all’omicidio di Marco Biagi. Ma «Bologna sa stare in piedi, per quanto colpita», come canta Francesco Guccini.
Di sicuro, ogni 2 agosto la città, che sembra deserta, si ritrova e si ferma alle 10.25. Quest’anno, le celebrazioni sono condizionate dalle norme anti contagio: i discorsi avverranno in Piazza Maggiore senza cortei. «Almeno non ufficiali, ma la gente sente molto le commemorazioni del 2 agosto, perché la memoria della strage è parte della città. Non a caso, quando rimisero in moto l’orologio della stazione, subito un passante allertò la stampa». A questo punto, i ricordi di Bolognesi coincidono con quelli di una giovane cronista, cui toccò scrivere nel 2001 che l’orologio della stazione non segnava più le 10.25. Quelle lancette, riattivate dopo lamentele di viaggiatori, furono riportate all’ora della bomba. Il 2 agosto 1980 per Bologna non è «tempo distante, che è roba degli altri», ma simbolo e riconoscimento di comunità.
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