diplomazia impotente

Bombe e strage di civili a Ghouta, la nuova Aleppo siriana: «duemila uccisi in tre mesi»

di Roberto Bongiorni

Un volontario soccorre un bambino nel Ghouta orientale, in Siria, sottoposto a massicci bombardamenti

5' di lettura

I convogli umanitari riusciranno davvero ad arrivare a destinazione? Gli accordi di tregua e le risoluzioni in Siria ci hanno insegnato ad essere prudenti, se non pessimisti. Ancor di più oggi. Venuta meno la minaccia dell’Isis, il presidente Bashar al-Assad è determinato a riconquistare gli ultimi territori in mano ai ribelli. E la regione del Ghouta orientale, 15 km da Damasco, appare la vittima predestinata. Questo territorio agricolo abitato da 400mila persone sta vivendo i giorni peggiori da quando, nel 2012, l’opposizione al regime ne prese possesso.

La risoluzione all’esame del Consiglio di Sicurezza dell’Onu ( che prevede un cessate il fuoco per 30 giorni) rischia di essere ricordata come una temporanea sospensione di uno dei più feroci assedi nei sette anni di guerra civile. Da domenica il regime ha lanciato una nuova e violenta offensiva. In sei giorni di bombardamenti hanno perso la vita oltre 400 civili, tra cui 100 bambini. La situazione é disperata.

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Per alcuni media il Ghouta è la “nuova Srebrenica”, a ricordare come i civili siano abbandonati a loro stessi senza che nessuno possa, o sia disposto a correre realmente in loro aiuto. Le Nazioni Unite non esitano a definirla la “nuova Aleppo”, perché l’intensità dei bombardamenti, la durata dell’assedio, e il blocco dei convogli umanitari stanno raggiungendo livelli che non avremmo voluto più vedere. Nel suo ultimo, accorato appello, il segretario dell’Onu, Antonio Guterres, non ha esitato a utilizzare la descrizione più drammatica: «L’inferno sulla terra».

Cosa sta accadendo nella regione siriana del Ghouta?
I tentativi del regime di Damasco e di Mosca di minimizzare il bilancio delle vittime stridono con le immagini dei genitori che scavano disperati tra le macerie alle ricerca dei propri figli. Le bombe non hanno risparmiato nemmeno gli ospedali. Solo martedì ne sono stati colpiti sei. Nel Ghouta manca tutto. Dai beni essenziali fino ai farmaci. L'assedio è iniziato nel 2013. Da allora, a intermittenza, il regime ha cercato di sbarazzarsi di questa spina nel fianco, troppo vicina alla capitale che si è mostrata vulnerabile ai tiri di mortaio dei ribelli.

IL DRAMMA DI GHOUTA
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Al-Assad ha compreso che è arrivato il momento favorevole per infliggere il colpo finale e far capitolare il Goutha, una delle due roccaforti dei ribelli. Anche la regione nord-occidentale di Idlib, dove agiscono anche movimenti estremisti affiliati ad al-Qaeda, è sotto assedio.

Eppure la comunità internazionale non riesce ad assumere un’iniziativa efficace per soccorrere la popolazione. La Russia vuole dettare le sue condizioni in modo da non compromettere il vantaggio militare del suo alleato Assad. Giovedì ha bloccato una risoluzione dell’Onu per una tregua di un mese. Ieri ha chiesto delle garanzie affinché i ribelli non traggano vantaggio dal cessate il fuoco.

La tragedia più grande

Il Ghouta orientale sta vivendo i giorni peggiori da quando, nel 2012, i ribelli dell’opposizione armata al presidente Bashar al-Assad presero possesso del polmone verde di Damasco. Negli ultimi 3 mesi, più di duemila civili sono stati uccisi e quasi 5 mila feriti, ha denunciato Salwa Aksoy, vicepresidentessa della Coalizione nazionale siriana, in esilio in Turchia.

Da domenica scorsa l’esercito del regime ha dato il via a una massiccia operazione aerea con bombardamenti martellanti – e indiscriminati - sulle aree popolate da civili. Non vengono risparmiati nemmeno gli ospedali. Solo nella serata di martedì – denunciano le Nazioni Unite – sono stati colpiti sei ospedali. Tre sono ormai fuori servizio. La macabra conta delle vittime viene aggiornata ora dopo ora. Da domenica le persone rimaste senza vita sotto le macerie sono oltre 400, di cui quasi 100 bambini.

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Le poche cliniche d’emergenza rimaste operative stanno esaurendo i farmaci. I feriti, anche gravi, vengono curati in corsia, anche sui marciapiedi secondo alcune testimonianze. Manca tutto, si lamentano i pochi medici rimasti, troppo pochi per fronteggiare un’emergenza di queste proporzioni.

Un assedio di lunga data
L’assedio delle forze governative è scattato nel 2013. Da allora, a intermittenza, il regime ha cercato di sbarazzarsi di questa spina nel fianco, troppo vicina alla capitale che si è mostrata vulnerabile ai tiri di mortaio. Ma i ribelli sono riusciti a resistere.

Assad ha compreso che è arrivato il momento favorevole – la comunità internazionale appare divisa e impotente - per infliggere il colpo finale e far capitolare il Goutha, una delle due roccaforti dei ribelli. Anche l’altra, la regione nord-occidentale di Idlib, dove agiscono anche movimenti estremisti islamici affiliata ad al-Qaeda, è sotto assedio. Ai suoi occhi sembra che l’obiettivo legittimi ogni mezzo. E nonostante gli appelli lanciati dall’Onu per un cessate il fuoco di un mese, che consenta l’invio di convogli umanitari, le forze del regime rispondono con i barili-bomba sganciati da aerei ed elicotteri. Un’arma brutale, che distrugge indiscriminatamente tutto quanto sta intorno.

«Questa sofferenza indicibile è intollerabile e i residenti non hanno alcuna idea se vivranno o moriranno. Questo incubo deve terminare e terminare ora», ha protestato il coordinatore per la Siria dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari Umanitari, Panos Moumtzis. Se si continua così si va verso «un cataclisma umanitario» ha affermato il ministro degli Esteri francese, Jean-Yves Le Drian.
Eppure, a distanza di cinque giorni dal lancio dell’ultima brutale offensiva, la comunità internazionale non riesce ad assumere un’iniziativa efficace per soccorrere la popolazione civile.

Lo stallo della diplomazia
La Russia ha bloccato una risoluzione dell’Onu che prevedeva l’imposizione di una tregua di un mese. Precisando che i bilanci delle vittime siano stati esagerati dai media internazionali, il Cremlino sembra preferire un piano umanitario che tuttavia non impedisca ad Assad di sfruttare il momento favorevole.
Nel mentre i civili continuano a morire. Il Ghouta sarà ricordato come una delle peggiori tragedie della guerra civile siriana. Un regione martoriata per anni dai bombardamenti.

È proprio in quest’area che il 21 agosto del 2013 vennero uccisi centinaia di civili (il bilancio peggiore parla di oltre mille vittime) con armi chimiche, probabilmente gas sarin. Gli Stati Uniti non esitarono ad attribuire la responsabilità al regime siriano. La linea rossa era stata superata. L’allora presidente Barack Obama stava per lanciare un raid aereo contro Damasco. Intervenne la Russia, con un piano volto a smantellare l’arsenale chimico del regime.

Da allora il Ghouta è stato quasi dimenticato. Quasi che le potenze (regionali e internazionali), in questi mesi interessate a spartirsi le spoglie della Siria, considerino questa propaggine della capitale Damasco un feudo di Assad che prima o poi tornerà in mano al regime.

Un’area abbandonata al suo destino

D’altronde, in una guerra dove si sono aperti nuovi conflitti, il Ghouta rischia di divenire una vittima designata. Un territorio meno significativo – geopoliticamente – degli altri. L’attenzione del mondo è puntata su Afrin, l’enclave curda dove la Turchia ha scatenato una grande offensiva militare per scacciare le milizie curdo siriane Ypg e rischia di entrare i collisione con l’esercito di Damasco. O nella regione montagnosa di Idlib, dove i ribelli – molti dei quali sostenuti dalla Turchia – cercano di resistere all’offensiva aerea del regime e della Russia. E soprattutto in quel territorio desertico a ridosso del fiume Eufrate dove tra Deir el-Zor e Raqqa il regime siriano e le Syrian Democratic Forces (Sda), sostenute e addestrate dagli Stati Uniti, si contendono i maggiori giacimenti petroliferi della Siria.

Nel Ghouta non c’è petrolio. Non c’è un confine sensibile. Né una potenza regionale decisa ad intervenire per assicurarsi una fetta della Siria di domani. Il Ghouta è solo. In balia di sé stesso.

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