Boom di auto-citazioni, ecco perché la ricerca italiana è “dopata”
Calano i finanziamenti, crescono le citazioni prodotte dalla ricerca italiana. Un miracolo? Non proprio. Un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Plos One svela il “trucco” delle autocitazioni: l’incrocio fra taglio ai fondi e uso di indicatori bibliometrici spinge sempre più accademici a pubblicare a raffica e menzionare se stessi o colleghi
di Alberto Magnani
4' di lettura
Calano i fondi alla ricerca, tagliati senza troppi riguardi da esecutivi di entrambe le sponde politiche. Cresce la produttività dell’università italiana in Europa, arrivata in vetta ai paesi G8 per «impatto citazionale»: il totale di riferimenti pubblicati su riviste accreditate su determinati autori. Un paradosso?
Più che altro, forse, una questione di tattica. La crescita di impatto della nostra ricerca sarebbe «dopata» dalla corsa a pubblicare il più possibilee ad auto-citare i propri lavori, prassi indotta a sua volta dall’introduzione delle cosiddette «soglie bibliometriche»: un quantitativo minimo di citazioni, per ottenere abilitazioni o mantenersi al passo con i colleghi.
È la ricostruzione che emerge da un articolo pubblicato sulla rivista scientifica Plos One («Citation gaming induced by bibliometric evaluation: a country-level comparative analysis») e firmato da Alberto Baccini (ordinario di Statistica all’Università di Siena), Giuseppe De Nicolao (ordinario al dipartimento di Dipartimento di Ingegneria industriale e dell'informazione dell’Università di Pavia) ed Eugenio Petrovich (assegnista di ricerca al dipartimento di Economia Politica dell’Università di Siena).
Il retroscena sul boom (?) di citazioni
L’articolo, ripreso anche dalla rivista Science , si propone di fare luce sul «lato oscuro» dell’improvvisa prolificità della ricerca italiana. Le radici della distonia fra sottofinanziamenti, bibliometria e citazioni vanno cercate, secondo gli autori, almeno un decennio fa. La cosiddetta legge Gelmini del 2010 ha assestato in parallelo un brusco taglio ai fondi universitari e introdotto un sistema di valutazione gestito dall’Agenzia per la Valutazione della Ricerca e dell’Università (Anvur), istituita nel 2006 ma divenuta operativa solo nel 2011.
In questo sistema, sottolineano gli autori dell’indagine, hanno assunto una centralità senza precedenti i cosiddetti indicatori bibliometrici: per semplificare, modelli matematici e statistici che misurano qualità e quantità della produzione scientifica. «Ad oggi - si legge nella nota anticipata al Sole 24 Ore - Superare le cosiddette “soglie bibliometriche”, che nei settori scientifici sono calcolate sulla base di citazioni, pubblicazioni e h-index (un indicatore che misura l’impatto di un ricercatore in base un calcolo sul totale di citazioni, ndr), è condizione necessaria per ottenere l’Abilitazione Scientifica Nazionale (Asn)».
L’improvviso boom della citazioni made in Italy
Risultato? Nell’arco di pochi anni l’impatto della nostra ricerca è sembrato esplodere a livelli mai sfiorati in precedenza. In particolare nel 2012 il cosiddetto field-weighted citation impact, l’impatto citazionale pesato, ha visto l’Italia superare gli Stati Uniti e attestarsi al secondo posto nell’intero G8, un gradino dietro al solo Regno Unito. Vista così, sembra un successo della combinazione di tagli e criteri Anvur. Ma le cose, spiegano gli autori della ricerca, sono un po’ meno immediate: l’«impennata citazionale» è frutto del cambio di comportamento dei ricercatori, spinti dai nuovi criteri a aumentare il più possibile i propri indicatori bibliometrici per ottenere abilitazioni (in particolare nel passaggio, delicato, da ricercatore a professore associato) e mantenere un profilo competitivo. Anche a costo di moltiplicare le pubblicazioni a scapito della qualità o, appunto, menzionare le proprie ricerche.
Da un lato c’è il caso dell’auto-citazione pura, che si verifica quando un autore riprende se stesso. Dall’altro si possono creare i cosiddetti «club citazionali», vale a dire lo scambio di menzioni fra colleghi che si conoscono o hanno lavorato insieme. Entrambe le pratiche sono state considerate dagli autori nello stilare un indicatore di auto-referenzialità, il cosiddetto Inwardness: un metro che per stabilire «quale proporzione delle citazioni totali ricevute da un Paese provengano dal Paese stesso, cioè quanto dell'impatto totale di un Paese sia dovuto a citazioni “endogene”». Il risultato è eloquente. L’indice di auto-citazione dell’Italia, misurato in centesimi, è passato dal 20,6% del 2000 a oltre il 30,7% nel 2016. Un balzo del 10,1% che fa impallidire il +3% degli Stati Uniti o valori più elevati, come il +7% della Germania.
Come ti gonfio l’H-Index
Il problema, spiega l’autore del report Giuseppe De Nicolao, è implicito alla natura stessa degli indicatori bibliometrici: nati per fornire un appiglio «quantificabile» alla produzione scientifica, possono finire per creare distorsioni. In primo luogo la quantità degli articoli pubblicati non coincide necessariamente con il mantenimento di una certa soglia di qualità: fra i cortocircuiti menzionati ci sono i casi di articoli con errori evidenti, ma citati in ragione delle proprie inesattezze. Una dinamica che potrebbe far schizzare all’insù gli indicatori di un certo accademico, pur in presenza di un lavoro come minimo contestabile. In seconda battuta l’urgenza di accumulare menzioni può spingere a tattiche come appunto quella dell’autocitatazione o dei cosiddetti club citazionali, sfruttate in un’ottica esclusivamente opportunistica.
Il taglio di fondi inflitto al nostro sistema universitario, con una scure del 21% dei fondi in 10 anni , può favorire una maggiore collaborazione fra ricercatori, creando un network virtuoso di lavori in sinergia e, in alcuni casi, un arricchimento disciplinare. Un caso ben diverso è la rincorsa disperata a sommare pubblicazioni o «citarsi addosso» per raggiungere le soglie imposte dai criteri bibliometrici adottati in forma ufficiale. «Di per sé il tasso di auto-referenzialità è cresciuto ovunque, visto che la pressione bibliometrica si fa sentire e l’aumen to delle collaborazioni internazionali favorisce il crearsi di “club”», spiega De Nicolao. «Ma altrove si registrano incrementi fisologici. Quello italiano è del tutto patologico, perché sembra il frutto di un doping collettivo».
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