DOPO IL NO A JOHNSON

Brexit, come si è arrivati al nuovo stop e quali scenari si aprono

di Claudio Martinelli

(Epa)

4' di lettura

La vicenda Brexit ha prodotto il suo ennesimo colpo di scena, e questa volta Boris Johnson ne è la vittima. Un episodio inatteso, consumato interamente dentro l'aula della Camera dei Comuni, che non fa altro che generare ulteriore incertezza in una storia infinita che certo non ne sentiva il bisogno.

Come è noto, giovedì scorso il Primo ministro aveva raggiunto un accordo con le istituzioni europee per un compromesso sul punto da sempre più spinoso per questa trattativa: la questione dell'Irlanda del Nord. Questo accordo, però, doveva essere sottoposto ad un voto di ratifica del Parlamento britannico. I tempi erano quanto mai stretti. Intanto perché, come è noto, per giovedì 31 ottobre è da tempo fissata la data di scadenza per far scattare la Brexit, ma soprattutto perché lo scorso 9 settembre è entrata in vigore una legge, il Benn Act, fortemente voluta dal Parlamento britannico, secondo cui se entro sabato 19 ottobre il Primo ministro non avesse ancora trovato un accordo di fuoriuscita con l'Unione Europea, oppure se lo avesse presentato ai Comuni ma questi lo avessero bocciato, il Primo Ministro sarebbe stato tenuto a inviare una lettera al Presidente del Consiglio Europeo per chiedere un'estensione del termine per la Brexit dal 31 ottobre 2019 al 31 gennaio 2020.

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Il Parlamento era talmente malfidente nei confronti dell'attuale Primo ministro che aveva ritenuto opportuno scrivere il testo della lettera e allegarlo agli articoli della legge. Per cui Boris Johnson non avrebbe dovuto nemmeno redigere la lettera ma solo firmarla e inviarla.

Dunque, nelle condizioni date, era necessario che la Camera dei Comuni venisse convocata proprio sabato 19 ottobre per discutere dell'accordo che nel frattempo era stato raggiunto e infine per votare sulla sua approvazione o meno.

La House of Commons durante la seduta straordinaria di sabato 19 ottobre (Reuters)


Per capire quanto sia inusuale una convocazione del Parlamento nel fine settimana basti pensare che l'ultima volta accadde nel 1982 durante la guerra per le Falkland e prima ancora per la crisi di Suez e per l'invasione della Polonia da parte dei nazisti, nel settembre del 1939.
Inoltre, dibattito e votazioni avrebbero dovuto concludersi entro le 23, ora di Londra (ossia le 24 ora di Bruxelles), poiché se il voto finale fosse stato negativo, entro quell'ora il Primo ministro avrebbe dovuto inviare la lettera.

Ecco quindi che puntualmente, alle 9,30 di sabato mattina la seduta ha avuto inizio. In questi casi le procedure parlamentari prevedono, oltre a una dichiarazione del Primo ministro in apertura di seduta, la presentazione da parte del Governo di una o più mozioni sul tema in questione, da sottoporre alla discussione e al voto dell'aula. Tuttavia, quando si tratta di mozioni che contengono proposte di indirizzo politico sostanziale e di estrema importanza (in questo caso l'approvazione di uno storico accordo sulla Brexit, appunto), i regolamenti parlamentari prevedono la possibilità per i deputati di proporre emendamenti. Prima dell'inizio della seduta ne vengono proposti diversi, ma lo Speaker John Bercow ne ammette solo due, perché particolarmente significativi e fondati.

Uno di questi è firmato dal deputato Oliver Letwin, un Conservatore ma da sempre molto critico con la linea politica di Johnson. Il suo emendamento prevede che nella seduta in corso la Camera non voti e tutto venga rinviato a dopo che sarà terminato l'iter parlamentare di un progetto di legge che provveda ad adattare l'ordinamento britannico alla fuoriuscita dall'Europa. Questo progetto di legge (EU Withdrawal Bill 2019) è già stato depositato ai Comuni ma il suo esame parlamentare non è ancora iniziato. Letwin dichiara di sostenere l'accordo tra Johnson e la UE ma non vuole che venga votato prima dell'approvazione di quella legge. E poiché è meglio fare tutto con calma è opportuno che il Parlamento rinvii ogni decisione e il Primo ministro chieda subito la proroga del termine con la lettera prevista dal Benn Act.

Nel primo pomeriggio di sabato 19 ottobre l'emendamento Letwin viene posto in votazione e approvato con una maggioranza di 322 contro 306.
A questo punto la vicenda piomba nel caos. I laburisti e le altre opposizioni insorgono chiedendo al Primo ministro di procedere ai sensi della legge ma Johnson si rifiuta di inviare la lettera a Bruxelles perché la situazione che si è venuta a creare non è ricompresa nei casi previsti dal Benn Act e chiede a Mr. Speaker di convocare la Camera lunedì per un voto definitivo sulle mozioni che sostengono l'accordo.

Poi, in serata, quando mancano pochi minuti a mezzanotte, se possibile le cose si complicano ulteriormente. Downing Street comunica che Johnson ha inviato a Tusk la lettera prevista dal Benn Act ma senza firmarla e accompagnandola con una seconda lettera con cui il Primo ministro illustra al Presidente del Consiglio UE le ragioni per cui ritiene un errore il rinvio della Brexit.

I prossimi giorni si annunciano carichi di incognite e altri colpi di scena sono alle viste. Johnson proverà a riprendere in mano la situazione, magari cercando di far approvare velocemente la legge chiesta da Letwin, per poi riproporre il voto sull'accordo. Intanto, da parte loro, i 27 Stati della UE decideranno come reagire ai paradossi di Londra. In questo momento l'unico dato sicuro è che non vi è certezza su nulla e la fine della vicenda Brexit sembra allontanarsi ancora una volta.

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