Brexit, meno humour e più pragmatismo
di Gianmarco Ottaviano
3' di lettura
Con la prima settimana di marzo sono cominciate le negoziazioni tra Unione europea e Regno Unito sulle loro future relazioni dopo la Brexit. Per cominciare a capire come si svilupperanno è utile inquadrarne il contesto, ripercorrendo rapidamente le tappe fondamentali delle recenti manovre di avvicinamento al qua e al di là della Manica.
Dopo quasi quattro anni dal referendum britannico sulla Brexit, il 31 Gennaio 2020 il Regno Unito ha lasciato l’Unione europea – e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom). Le modalità del ritiro sono disciplinate dall’Accordo di recesso (Withdrawal agreement), che regola le pendenze sul dare e avere delle due parti relativamente a tutti gli impegni reciproci pregressi. Tale accordo è entrato in vigore l’1 Febbraio 2020 e prevede un periodo di transizione fino al 31 dicembre 2020, durante il quale le norme e i regolamenti dell’Unione continueranno a valere anche per il Regno Unito. Se per fine anno le negoziazioni non dovessero portare a un accordo speciale tra Unione europea e Regno Unito, i loro rapporti economici reciproci diventerebbero come quelli che attualmente intercorrono con i Paesi terzi dell’Unione. Tutto potrebbe tuttavia slittare, ma di uno o due anni al massimo, se Unione e Regno convergessero su una decisione condivisa di rinvio prima dell’1 luglio 2020.
Che cosa c’è in questo momento sul tavolo negoziale? Nelle linee guida rese pubbliche il 23 marzo 2018, il Consiglio europeo ha annunciato la determinazione dell’Unione a stabilire in futuro una relazione di partenariato con il Regno Unito la più stretta possibile. Il partenariato riguarderebbe molte importanti dimensioni, tra cui la cooperazione economica e commerciale, la lotta contro il terrorismo e la criminalità internazionale, la sicurezza, la difesa e la politica estera. I princìpi di questa “relazione speciale” appaiono nella Dichiarazione politica congiunta del 17 ottobre 2019: «L’Unione europea e il Regno Unito sono determinati a collaborare per salvaguardare un ordine internazionale basato su regole certe, lo stato di diritto e la promozione della democrazia, nonché alti standard di commercio libero ed equo, i diritti dei lavoratori, la tutela dei consumatori e dell’ambiente e la cooperazione contro minacce esterne ai loro valori e interessi».
Lungo l’intero percorso, l’Unione ci ha tenuto a dimostrare tutte le sue buone intenzioni, ma anche la sua fermezza. Nelle parole del capo negoziatore dell’Unione, il francese Michel Barnier: «Negozieremo in buona fede. La Commissione continuerà a lavorare a stretto contatto con il Parlamento europeo e il Consiglio. Il nostro compito sarà difendere e far avanzare gli interessi dei nostri cittadini e della nostra Unione, cercando di trovare soluzioni che rispettino le scelte del Regno Unito». Tuttavia, ha insistito Barnier, è stata una scelta della Gran Bretagna quella di avere una relazione più distante di quanto l’Unione volesse. In principio, c’è la disponibilità a offrire a Downing Street un accordo di libero scambio senza dazi né contingentamenti anche più generoso di quello raggiunto con il Canada, ma, ha aggiunto Barnier, a certe condizioni legate essenzialmente a princìpi di fair play economico. Lo scopo è evitare che imprese e banche del Regno Unito sfruttino i vantaggi del Mercato unico in modo scorretto rispetto alle proprie concorrenti europee.
Al buon viso dell’Unione, Boris Johnson ha finora risposto con caratteristica sprezzante arroganza mediatica, rifiutandosi di accettare che un accordo più generoso di quello con il Canada comporti necessariamente anche vincoli di fair play più stringenti. Se poi fosse impossibile raggiungere un accordo in stile canadese, ha dichiarato Johnson, il Regno Unito sarebbe ben felice di ricorrere a un accordo alternativo in stile australiano. Una battuta provocatoria, dal momento che per ora l’Australia non ha alcun accordo speciale con l’Unione europea.
Tuttavia, il British humour, con cui il primo ministro mostra di sottovalutare le implicazioni della Brexit per sé e gli altri, sta cominciando ad aprire le prime crepe nella maschera del buon viso con cui l’Unione ha finora risposto al cattivo gioco britannico. Con lo spettro del coronavirus che si aggira per il mondo e la rinnovata pressione migratoria dalle zone di conflitto del Medio Oriente, nelle prossime settimane, più che di British humour, ci sarebbe bisogno di sano pragmatismo anglosassone. Alla fine, ciò che resterà di tutta l’avventura della Brexit, al di qua e al di là della Manica, saranno soltanto i suoi effetti pratici.
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