Brexit, ora la maggioranza dei cittadini inglesi non la vuole più
Il premier Johnson viene criticato per come ha gestito pandemia e recessione
di Nicol Degli Innocenti
3' di lettura
Boris Johnson ha festeggiato il quarto anniversario del referendum su Brexit ieri dando una buona notizia agli inglesi. La distanza minima di sicurezza è stata ridotta da due metri a un metro, permettendo a pub, ristoranti, alberghi e cinema di riaprire il 4 luglio. «Il nostro lungo letargo nazionale sta iniziando a finire», ha dichiarato il premier in Parlamento.
Johnson deve molto a Brexit. Nel 2016 il suo ruolo di leader della campagna anti-Ue lo aveva catapultato ai vertici del partito conservatore e gli aveva assicurato un seguito di fedelissimi euroscettici. Nel dicembre 2019 è stata la sua promessa di «concludere Brexit» a portarlo alla vittoria elettorale con una schiacciante maggioranza.
Il 31 gennaio scorso la Gran Bretagna ha formalmente lasciato la Ue, anche se il periodo di transizione finirà solo il 31 dicembre. Il premier resta deciso a recidere del tutto il cordone ombelicale che lega Londra a Bruxelles e ha escluso un allungamento dei tempi, che ci sia un accordo sui rapporti futuri o meno.
Deal o no deal, sarà Brexit. Quattro anni dopo il voto che aveva diviso il Paese, questa “missione compiuta” potrebbe sembrare un lieto fine per Johnson e per la Gran Bretagna.
Non è proprio così. Il premier deve affrontare tre difficili sfide che riguardano l’opinione pubblica e che non lasciano intravedere un lieto fine.
Look back in anger
Primo, la maggioranza dei cittadini è ora contraria a Brexit. Secondo, la popolarità del Governo è calata a causa della gestione caotica dell’emergenza Covid-19. Terzo, Johnson aveva sottratto voti all’opposizione laburista promettendo di aiutare i meno abbienti, che ora saranno i più colpiti dalla recessione che incombe.
La Gran Bretagna resta spaccata a metà tra il fronte pro-Ue e il fronte pro-Brexit, oggi come nel 2016. Allora Leave aveva vinto per 51,9% contro il 48,1% di Remain. I sondaggi però mostrano che dopo il referendum c’è stata un’inversione delle percentuali e che gli eurofili hanno superato gli euroscettici.
«Negli ultimi tre anni c’è stata una maggioranza pro-Remain costante anche se limitata al 53%, quindi possiamo dire che ora che Brexit diventa realtà la maggioranza dei britannici non vuole Brexit e tantomeno un no deal», spiega Sir John Curtice, docente di politica all’Università di Strathclyde, considerato il massimo esperto di sondaggi in Gran Bretagna.
Un sondaggio YouGov condotto ogni anno dal 2016 rivela un costante aumento della percentuale di chi ritiene che, con il senno di poi, Brexit sia stato un errore (47%), mentre cala il numero di chi pensa sia stata una buona idea (41%).
Cala la popolarità di Johnson
I sondaggi mostrano anche che il Governo ha perso molti punti sia tra i sostenitori di Brexit che tra gli eurofili a causa di una gestione dell’epidemia segnata da ritardi, confusione, inversioni a U e palese incompetenza. La benevolenza verso Johnson, colpito dal coronavirus e finito in terapia intensiva, si è dissipata.
«La popolarità è crollata dal 50% al 43% in poche settimane a causa dello zigzagare del Governo -, afferma Curtice -. Si stanno creando dinamiche che potrebbero modificare profondamente il sostegno per i partiti e determinare il risultato delle prossime elezioni, perché la gente ora apprezza di più la competenza».
Competenza, non ideologia, e fatti, non parole. Questa evoluzione delle priorità degli elettori è un’altra potenziale trappola per Johnson.
Il voto per Brexit non era stato solo un voto anti-Ue ma un voto anti-sistema, un grido di protesta dei “molti” nelle zone più povere del Paese contro l’elitarismo dei “pochi” a Londra e dintorni.
Resta il divario Nord-Sud
Lo aveva capito Theresa May, che nel 2016 aveva promesso di non «governare solo per una minoranza di privilegiati» e lo ha capito Johnson, che nel 2019 ha vinto usando lo slogan “levelling up”, impegnandosi a creare condizioni migliori per tutti.
«Il problema è che il divario nei redditi tra Nord e Sud non è cambiato e il Governo non ha ancora neanche fatto sapere come intende sostituire i fondi di sviluppo Ue per le regioni più svantaggiate -, spiega Anand Menon, direttore del think tank Uk in a Changing Europe -. L’epidemia con il suo impatto sull’economia rende il levelling up ancora più urgente ma anche più difficile da realizzare. Quattro anni di parole e promesse hanno portato a ben pochi fatti».
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