Brexit: vi spiego perché a Dublino abbiamo conquistato più banche inglesi di tedeschi o francesi
La capitale irlandese ha vinto la sfida con Francoforte e Parigi per attrarre società finanziarie di vario tipo in fuga da Londra. Ecco come ci è riuscita in quest'intervista esclusiva a Kieran Donoghue, l’uomo che dal 2004 ha pilotato il boom dell’Isola di Smeraldo come hub finanziario
di Enrico Marro
4' di lettura
«Brexit ha portato a Dublino 117 istituzioni finanziarie, più che in altre piazze finanziarie». Parola di Kieran Donoghue, capo degli International Financial Services della potente Ida Ireland, l’agenzia governativa incaricata di attrarre investimenti esteri nell’Isola di Smeraldo: di fatto, l’uomo che dal 2004 è riuscito a far fare all’Irlanda il salto di qualità come hub finanziario, vivendo sulla sua pelle gli anni difficili degli aiuti internazionali e del programma della Troika (2010-2013) e i nuovi recenti record della Tigre Celtica , sempre storicamente molto rapida nel passare dalle stelle alle stalle e viceversa.
Come si spiega il fatto che Dublino ha battuto le piazze europee concorrenti nell’attrarre la finanza britannica in cerca di un passaporto Ue?
«Ci sono molte ragioni: siamo geograficamente vicini, rappresentiamo una giurisdizione common law, abbiamo un quadro giuridico simile, siamo madrelingua inglesi, abbiamo un sistema fiscale competitivo . E non da ultimo, possediamo ormai una piazza finanziaria di un certo rilievo, che dà lavoro a circa 90mila persone. Ma c’è una ragione ancora più profonda: l’industria finanziaria internazionale sta passando dal tradizionale modello ancorato a un unico hub come Londra (o New York oppure Tokyo) a un modello distribuito su diverse piazze, processo già in atto prima di Brexit ma ora accelerato dagli eventi. Il che non significa certo la fine della capitale britannica come centro di gravità finanziario, ma il decentramento di uffici e rami dell’attività all’estero: non solo in Irlanda, ma anche in Germania, Francia e in altri Paesi. Morgan Stanley, per esempio, ha uffici sia a Londra che a Dublino, ma anche a Francoforte».
La frammentazione del mondo finanziario quindi è nata prima di Brexit...
«Quando mi chiedono “quante banche sono arrivate con Brexit” rispondo che le istituzioni finanziarie internazionali a Dublino c’erano anche prima. E sia chiaro: noi non tifiamo per Brexit, perché porterà danni anche alla nostra economia. Preferiremmo avere un po’ di banche in meno a Dublino ma la Gran Bretagna ancora all’interno dell’Unione europea, non viceversa».
La finanza del futuro dunque diventerà policentrica: non più un solo pianeta, ma un sistema solare distribuito su tanti corpi celesti. Che mutamenti porterà questa situazione?
«Innanzitutto aumenteranno i costi, fenomeno che in realtà e già in corso con le conseguenti ristrutturazioni di gruppi bancari. Questo porterà a una crescente automazione dell’attività, riducendo inevitabilmente i posti di lavoro nonostante l’aumento del business. Prendiamo per esempio il risparmio gestito: le masse sono in costante aumento, anche per l’incremento della ricchezza generata per esempio in Asia, ma i profitti non crescono alla stessa velocità, anzi. Nell’asset management si sta affermando un modello distributivo “alla Amazon” ma con costi “alla Vanguard” , e con un ruolo sempre più importante delle più economiche strategie di investimento passive rispetto a quelle attive».
Il futuro dell’industria finanziaria passa dal fintech: Dublino è pronta a raccogliere questa sfida?
«Con circa 500 società fintech, l’Irlanda è ben posizionata per contribuire a modellare l’industria finanziaria di domani. Dublino, in particolare, grazie alla massiccia presenza di grandi colossi digitali ma anche di piccole e agguerrite startup, rappresenta un ottimo ecosistema dell’innovazione dove le realtà finanziarie e quelle tecnologiche lavorano gomito a gomito. Citybank, per esempio, ha sviluppato la sua piattaforma digitale più innovativa proprio qui».
In quali settori finanziari siete più forti e quali sono i vostri principali competitor?
«Il maggiore è quello dei fondi di investimento, con circa 250 società e 35mila addetti, seguito dal settore bancario e da quello assicurativo. Siamo molto forti anche nel leasing, un business avviato negli anni Settanta nel comparto aeronautico. In termini di trend, il settore che cresce più in fretta è quello del risparmio gestito. I nostri principali concorrenti sono il Lussemburgo per i fondi e Francoforte per il banking».
Tra pochi giorni terminerà il mandato di Mario Draghi alla guida della Bce, senza dubbio il più difficile nella breve ma intensa storia dell’eurozona. Qual è il suo giudizio sul primo governatore italiano della Banca centrale europea?
«Lo riassumo in due parole: un grande. Di più: il mio eroe. Mario Draghi è stato semplicemente favoloso a partire da quando, pochi mesi dopo essersi insediato, pronunciò il suo famoso “whatever it takes” a difesa dell’unità dell'eurozona. Una presa di posizione coraggiosa e necessaria. Draghi ha capito fin dal primo momento che l’Europa è un progetto politico, non economico, e si è mosso di conseguenza. Aveva anche iniziato a ridurre le politiche monetarie espansive della Bce, fino al momento in cui è diventato palese il fatto che l’economia europea stava pericolosamente frenando e che era necessario tornare a premere l’acceleratore su misure non convenzionali».
Christine Lagarde si muoverà nello stesso solco di Mario Draghi?
«Lagarde è stata un’ottima scelta: ha una grande esperienza internazionale, anche grazie al non facile mandato alla guida del Fondo monetario, durante il quale per inciso ha aiutato molto l’Irlanda durante la crisi post Lehman. A chi storce il naso dicendo che non è un’economista ma un’avvocato, risponderei volentieri che oggi il ruolo di un banchiere centrale non è puramente finanziario, ma soprattutto politico. Come dimostrato appunto da Mario Draghi».
Prima o poi riusciranno a vedere la luce gli Eurobond?
«Non so se riusciranno a vedere la luce, ma di sicuro dovrebbero, perché il progetto europeo è ancora incompleto. Dopo aver portato a termine l’unione valutaria, dobbiamo completare l’unione bancaria e soprattutto quella fiscale, come non si stanca mai di ricordare Draghi. È questa la sfida più grande per l’Europa, assieme al cambiamento climatico e alle migrazioni. E non dobbiamo perdere tempo».
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