Bruno Pavlovsky: “Lusso e artigianato Made in Italy sono insostituibili”
La geografia della bellezza parla per metà francese, per metà italiano. L'abbiamo percorsa insieme al presidente Chanel, all'indomani dell'ultima acquisizione sul mercato italiano: Ballin
di Nicoletta Polla-Mattiot
7' di lettura
Avrei voluto incontrare Bruno Pavlovsky fra i suoni di manifattura del distretto calzaturiero di Parabiago o della Riviera del Brenta, sentire l'odore denso di conceria, che pelle dopo pelle condensa la lunga tradizione toscana, farmi scorrere fra le dita uno dei filati mossi e soffici che dal vercellese si tendono fino al Grand Palais, raccontando una storia di ricerca, artigianalità e di legami che, nodo su nodo, allacciano l'Italia alla Francia, la competenza del nostro fatto a mano con l'esprit geniale dell'Haute Couture. Invece ci incontriamo davanti a uno schermo, faccia a faccia, da un ufficio all'altro, e il profumo, i colori, la consistenza di un mondo, che va toccato prima che conosciuto, evocato prima ancora che visto, sono lasciati solo al potere della sua voce.
«Mi rammarico di non saper parlare italiano, lo capisco, almeno un poco e, se si tratta di ordinare in un ristorante, posso riuscirci, ma non sarei capace di rispondere alle sue domande in italien». C'è una sobrietà misurata nel modo in cui sceglie le parole che l'inflessione parigina rende tanto musicali. Bruno Pavlovsky è il presidente della divisione moda Chanel , ha 56 anni, 30 dei quali passati a lavorare per la maison francese e gli ho proposto questo incontro per parlare innanzitutto dell'Italia. Il fatto che abbia accettato senza riserve dice molto più della sua dichiarazione d'amore per il nostro Paese e in particolare per «Firenze, probabilmente una delle città più belle al mondo» così come dell'acquisizione di Vimar 1991, Conceria Samanta, Conceria Gaiera, per citare solo gli ultimi passi della sua strategia di tutela della filiera produttiva.
L'azienda ha sempre dichiarato che «i métiers d'art sono indissociabili dall'alta moda parigina e dal prêt-àporter di lusso» e che comprarli significa preservarli dall'estinzione. Qui non si tratta, però, solo di piccoli atelier artigianali, ma di aziende storiche, come Roveda, una delle gemme dell'industria calzaturiera italiana, con più di 300 impiegati, 7mila metri quadrati di fabbrica e 60 anni di attività, che nel 2000 è diventata di proprietà della maison francese. L'ultima acquisizione, sempre nella produzione di calzature, è di ottobre 2020: Ballin, azienda veneta con 75 anni di storia. «Fortunatamente abbiamo molti fornitori in Italia e il nostro obiettivo non è certo acquistarli tutti!», spiega Pavlovsky. «Abbiamo partnership forti, proficue e importanti, a tutti i livelli. Chanel è al 50 per cento made in Italy. Nel complesso lavoriamo con circa mille fornitori e, senza fare un conteggio preciso, posso dire che sono per metà francesi e per metà italiani. Non a caso, molti nostri dipendenti risiedono in modo permanente nel vostro Paese e seguono l'attività manifatturiera locale. Solo il processo creativo non avviene in Italia».
Il fatto di incontrarci nel pieno di una crisi mondiale, che è economica, sociale, occupazionale e che ha colpito duramente il segmento moda, mettendo in difficoltà molte aziende (specie le più piccole e familiari), rende il processo di cui parla Pavlovsky cruciale. «Noi non potremmo fare quello che facciamo senza l'Italia. Per me è lampante. Basta fare un esempio: le nostre calzature sono made in Italy al cento per cento ed è un fatto indiscutibile, perché qui sta l'eccellenza». La mimica accompagna con un accenno di entusiasmo quel misto di visione e pragmatismo che sarà il tessuto di tutta la conversazione con il presidente Chanel. Ci sento risuonare un orgoglio solido, misurato dalla consapevolezza di rischi e responsabilità. «Come brand di moda noi stiamo realizzando un sogno. Il nostro obiettivo è crearlo, ma dobbiamo sempre mantenerci al livello del sogno, altrimenti risulterà ingannevole per i nostri clienti». Semplice e definitivo. Proprio come il suo punto di vista sulla creatività: «Devi avere qualcosa in più, che ti permetta di immaginare il domani; devi essere coraggioso perché esponi te stesso insieme alla tua intuizione: puoi avere ragione o torto, fa parte della sfida. Ma la dote più importante, che è quella che riconosco a Virginie (Viard, il direttore artistico di Chanel, che ha raccolto l'eredità di Karl Lagerfeld, ndr), è di percepire che cosa sarà importante per i nostri clienti. Puoi essere un artista eccelso, ma se lavori nella moda, non crei per te stesso, pensi a chi indosserà le tue creazioni. Devi affascinarlo, attrarlo, trasmettere sicurezza attraverso un prodotto. Ed è il prodotto la cosa più importante». Lo dice il presidente di una maison che è un'icona indiscussa.
La doppia C è un marchio di eccellenza su qualunque cosa si posi, dall'eyewear (di cui è appena stata lanciata in Europa la piattaforma e-commerce, dopo il rinnovo dell'accordo quinquennale con Luxottica) alle collezioni moda, dai profumi agli orologi e ai gioielli. E lo dice proprio il manager che, quest'anno, ha sperato fino all'ultimo di mantenere la sfilata della Cruise a Capri e che ha preso la decisione controcorrente di non fermare la produzione e di lanciare la collezione durante la quarantena. «Era il momento giusto per assegnare nuovi ordini alle aziende manifatturiere. Sarebbe stato forse più facile per me fermare tutto, aspettare, ma avrei causato e causerei ripercussioni enormi. E noi siamo convinti di potercela fare, con il coinvolgimento di tutti».
Puntare al futuro è una visione a cerchi concentrici: più si allarga più aumentano le possibilità di tenuta. Il cuore da cui parte è il prodotto, ma la trasmissione della creatività che lo rende possibile si estende dal proprio brand all'intera filiera, dai propri fornitori all'industria della moda, dal mondo al pianeta. Non esiste responsabilità che non sia globale, ormai. «Sa, i clienti sono molto intelligenti. Se il prodotto non è autentico, se non lo curi al meglio delle tue possibilità, qualunque sia il tuo nome, non ti seguiranno. E se non subito, succederà poi. Io sono convinto che la prossima generazione di clienti sarà protagonista di una trasformazione sostenibile al cento per cento e dobbiamo giocare d'anticipo, metterci in grado di soddisfarli non a parole, ma con azioni concrete, che non riguardino solo Chanel, ma i suoi partner, tutti i fornitori. Questa crisi ci dà l'opportunità di accelerare la trasformazione». Si torna, ancora una volta, alla lunga catena di mestieri, competenze, professioni che la moda coinvolge, al bisogno di supportarli perché non spariscano, ma anche di renderli compatibili con istanze di qualità e sostenibilità, ecologica ed economica, ormai imprescindibili.
Parlando di Chanel si ricomincia a parlare dell'Italia. Gli chiedo di raccontarmi alcune delle eccellenze che ritiene irrinunciabili per la maison e su cui l'investimento è un ritorno. «Tutte», sorride. «Non appena ti rendi conto che il tuo compito è di proteggere per i prossimi vent'anni il knowhow che ti consentirà di continuare a rendere uniche le tue creazioni, il passo successivo è ovvio: salvaguardare ogni expertise esclusiva». Insisto per avere qualche esempio, anche se ad ogni nome che pronuncia (riuscirò, alla fine, a fargliene dire sette), aggiunge sempre «ma ce ne sono molti altri e sono tutti importantissimi». Senza dunque un ordine di importanza, ricorda l'ultima acquisizione, Vimar: «Ho visitato personalmente l'azienda diverse volte e devo dire che è davvero stupefacente. Sono i loro filati sofisticati, capaci di mixare fibre naturali e fibre tecniche, che rendono unico il nostro tweed. Non saprei cosa dire su Roveda, se non che lavoro con loro da sempre e provo una connessione emotiva fortissima con quest'azienda leader nella manifattura delle calzature. Gensi è una realtà incredibile, il meglio della produzione di sneakers moda eleganti. Corti e Mabi sono le migliori nella realizzazione degli accessori in pelle, ma certo non mi può chiedere di essere obiettivo, sono talmente importanti per noi, soddisfano da anni tutte le nostre richieste, sono riusciti a trovare nuovi materiali, sviluppare lavorazioni particolari, sono parte integrante del nostro lavoro. E poi Samanta e Gaiera, fra le ultime arrivate nella maison: con le loro competenze così specifiche, ci permetteranno di offrire all'industria del fashion qualcosa che oggi non esiste».
Con questo racconto energico, a tratti appassionato, ci traccia una mappa geografica della creatività artigianale, intrecciando abilità manuale e minuzia artistica e, contemporaneamente, ci fa fare un giro d'Italia, passando dal Piemonte alla Lombardia, dalla Toscana all'Abruzzo. È curioso: stiamo parlando di un brand planetario con il suo leader moda worldwide ed è straordinaria la sua capacità di entrare nel dettaglio, di spingersi fino alla dimensione locale, di conoscere nomi di posti ignoti alla maggior parte degli italiani, da Ponte a Egola a Carisio. «A me piace viaggiare e visitare tutti questi paesi, è anche una questione di cultura. Più che mai in questo momento, così difficile per gli spostamenti, occorre focalizzarci a livello locale. Un discorso che mi sembra ancora più rilevante se dalla produzione ci spostiamo al retail e ai nostri fedeli clienti».
Inevitabile, parlando di negozi e di vendite, arrivare a parlare di perdite. Nello scenario migliore, il mercato del lusso, nel suo complesso, calerà nel 2020 di 100-110 miliardi e solo nel 2021 si tornerà ai livelli pre-Covid. I più cauti nelle previsioni preconizzano un ritorno alla normalità non prima del 2023. «Il nostro mondo si basa sullo storytelling e la sfilata è l'inizio della storia. Per questo la decisione di annullare Capri è stata così sofferta. Lo show è un elemento fondamentale, non potremo mai – mai! – sostituire la sensazione, l'emozione, l'impatto che suscita. Il digitale è importante, tutti i brand devono implementarlo, ma non è equivalente. Ciò vale anche per l'esperienza sul punto vendita che resta insostituibile e che a tutt'oggi è fortemente penalizzata da viaggi e turismo ridotti a zero. Ci sono però segnali di incoraggiamento: abbiamo fatto un lavoro enorme con la clientela locale, ovunque, negli Stati Uniti, in Cina, nel Regno Unito, in Italia e i risultati sono notevoli. Non è facile, ma sono fiducioso sui prossimi passi».
Quanto tempo ci vorrà per tornare alle cifre del passato è difficile a dirsi. «Onestamente non è importante. Credo sia meglio capire la situazione odierna, riuscire a coinvolgere e restare significativi. Stiamo attraversando tempi difficili, imparando molto. Si tratta di accettare il punto in cui siamo e immaginare di partire da qui». Con la testa, per i progetti, con il cuore, per le emozioni, e con le mani, per i prodotti. Chanel è anche le persone che ci lavorano: senza di loro, dice Pavlovsky, «non saremo in grado di tornare ad essere ciò che siamo» ed è un bel pensiero di prospettiva per chi, dal 1909, costruisce impalpabili sogni di seta, piume, ricami, eleganza e bellezza.
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