Bundesbank, 60 anni e un'identità da ritrovare
di Alessandro Merli
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Alle porte di Francoforte, in un edificio che è un inno all'architettura brutalista, il quartier generale della Bundesbank mostra come, nella forma e nella sostanza, la banca centrale tedesca abbia sposato, e sia stata la principale artefice, dalla sua fondazione 60 anni fa, dell'impegno della Germania alla stabilità.
Ma dai piani alti di quell’enorme parallelepipedo che domina il grazioso parco di Grueneburg si vede in lontananza, dall’altra parte della città, la doppia torre della Banca centrale europea, che doveva essere il clone ed è divenuta il contraltare della Bundesbank, costringendola a un riflessione sul proprio futuro.
Questo fine settimana, l’istituzione venerata dalla popolazione, di cui l’ex presidente della Commissione europea, Jacques Delors, disse: «Non tutti i tedeschi credono in Dio, ma tutti credono nella Bundesbank», celebra il suo sessantesimo compleanno con due giorni di porte aperte al pubblico. Più una sagra di paese, con giochi per bambini, quiz, esperienze con banconote vere e false e i lingotti d’oro delle riserve, che una paludata cerimonia ufficiale. «Il nostro compito principale – ha detto del resto il presidente Jens Weidmann – è di salvaguardare il valore della moneta. Per raggiungere questo obiettivo, abbiamo bisogno della fiducia e del sostegno del pubblico». Per una popolazione la cui psiche è stata marchiata a fuoco dall’iperinflazione degli anni 20 e dalla dubbia narrativa secondo cui è a questa, e non alla grande depressione successiva, che si deve l’alba del nazismo, ciò significa, fin dalla sua creazione, il 1° di agosto del 1957, lotta senza quartiere all’inflazione.
L’indipendenza dalla politica
Per far questo, la Bundesbank è stata dotata di un’indipendenza assoluta dalla politica, un modello che poi verrà replicato nello statuto della Bce. L’istituzione sarà uno dei pilastri del miracolo economico tedesco. «Il consiglio della Bundesbank – disse il cancelliere Konrad Adenauer nel 1956 – è totalmente sovrano rispetto al Governo federale». Anche se poi, in casi estremi, la politica ha preso il sopravvento, come quando, dopo la riunificazione tedesca, Helmut Kohl impose il cambio alla pari fra il marco dell’Ovest e quello dell’Est, contro il parere della banca centrale. Il suo presidente, Karl Otto Poehl, rassegnò le dimissioni.
La Bundesbank nasce quasi dieci anni dopo il marco ed eredita ed espande i compiti che nell’immediato dopoguerra erano stati della Bank deutscher Laender. Progressivamente espanderà la sua influenza, anche per aver sempre saputo, è così è tuttora, essere in straordinaria sintonia con l’opinione pubblica. Negli anni 70 abbraccia il monetarismo, anche se, come ammettono i documenti ufficiali dell’istituto stesso, i 23 anni di aggregati monetari gli obiettivi sono stati raggiunti solo 12 volte. Considerata dogmatica e inflessibile, ha spesso però saputo leggere l’economia in modo pragmatico. Il suo motto è nelle parole di Otmar Emminger, un altro dei suoi presidenti, del 1979, che toccano due corde delicate per l’opinione pubblica: «L’inflazione dev’essere combattuta, come le dittature, prima che si sia radicata».
Nei primi passi dell’integrazione europea, prima nel serpente monetario, poi nel sistema monetario europeo (lo Sme), è la Bundesbank che detta la linea. Quando si arriva al dunque dell’unione monetaria, solo la creazione della Bce a immagine e somiglianza della Bundesbank, con il marchio a fuoco della cultura della stabilità, convince i riluttanti tedeschi ad abbandonare il marco, di cui tanti parlano ancora con nostalgia. La stessa nostalgia emersa nelle scorse settimane alla commemorazione di Hans Tietmeyer, uno dei padri dell’euro, ma anche l’ultimo presidente della Bundesbank con il Deutsche Mark.
Con la nascita della Bce, si apre per la Bundesbank un capitolo di storia in cui si trova per la prima volta a giocare una parte subalterna, un cambio di ruolo che dentro la stessa istituzione è stato accolto da alcuni con recalcitrante scetticismo. Ciononostante, i primi anni di convivenza con la Bce sono filati abbastanza lisci, per il quadro economico favorevole, ma anche per la presenza nel consiglio della Bce, come interprete autentico della cultura della stabilità, di una figura autorevole come Otmar Issing, e due presidenti come Wim Duisenberg, un surrogato tedesco, e Jean-Claude Trichet, il «più tedesco dei francesi», come lui stesso ama definirsi.
Il momento della crisi
Le cose sono cambiate con la crisi finanziaria globale, poi degenerata nella crisi sovrana dell’eurozona. La decisione sotto Trichet di acquistare titoli dei Paesi in crisi (il programma Smp) portò alle dimissioni del successore di Issing, il dogmatico Juergen Stark, e questo e altri dissensi forzarono l’uscita di scena di Axel Weber, presidente della Bundesbank e capo designato della Bce.
Nel 2011, è il momento quindi di Weidmann alla guida della Bundesbank e di Mario Draghi alla testa della Bce. È anche il momento in cui la crisi dell’eurozona si aggrava, tanto da spingerla fin sull’orlo dell’abisso della rottura della moneta unica. Quando Draghi concretizza la sua frase «Whatever it takes», «Faremo tutto il possibile per salvare l’euro» con il piano Omt, la Bundesbank si schiera davanti alla Corte costituzionale tedesca con i suoi oppositori. È il punto più basso del rapporto fra la banca centrale tedesca e quella che in Germania molti giudicano ormai una figlia degenere. Nelle decisioni prese dalla Bce per contrastare la crisi, dai tassi d’interesse negativi agli acquisti di titoli di Stato (il Qe), Weidmann si schiera quasi sempre, con un ridotto manipolo di altri falchi, contro la maggioranza guidata da Draghi. Il Qe, in particolare, «confonde i confini fra politica monetaria e politica fiscale», esponendo la Bce alle pressioni dei politici. L’indipendenza della banca centrale resta per la Bundesbank un totem imprescindibile. Tanto che quando Draghi è sottoposto l’anno scorso a un attacco particolarmente virulento da parte del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, Weidmann in un’intervista sostiene molte delle argomentazioni del banchiere centrale italiano. Nell’era della Bce, in cui il suo presidente non è più onnipotente, ma uno dei 25 voti nel consiglio, la Bundesbank dissente e si espone al rischio di un’immagine di impotenza. Tuttavia, non solo rivendica l’opportunità di farlo per far emergere posizioni diverse (e in fondo riaffermare la sua linea davanti all’opinione pubblica tedesca), ma anche per influenzare le decisioni finali: nel Qe, per esempio, ottiene che i rischi restino per lo più in capo alle banche centrali nazionali. E Weidmann è oggi allineato sulla questione di fondo che «la politica monetaria espansiva è giustificata», come ha ribadito anche questa settimana, pur con riserve sulle modalità.
Il prossimo capitolo della storia ultrasessantennale della Bundesbank potrebbe semmai aprirsi nel 2019, alla scadenza del mandato di Draghi. Allora, se tutto andrà come deve andare e la normalizzazione della politica monetaria sarà stata ben avviata, se non completata, con il trasloco di Weidmann, che per ora è il candidato più accreditato alla successione, alla Bce la distanza fra i duellanti ai lati di Francoforte potrebbe ridursi.
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