ServizioContenuto basato su fatti, osservati e verificati dal reporter in modo diretto o riportati da fonti verificate e attendibili.Scopri di piùThe bear

C’è del panico in quella cucina

La serie, ideata da Christopher Storer, racconta le peripezie per far andare avanti un locale specializzato in «Italian beef» a Chicago. Funziona la commistione delle diverse anime degli chef, con qualche eccesso drammatico

di Gianluigi Rossini

 Jeremy Allen White è Carmen “Carmy” Berzatto

2' di lettura

Se il cooking show è ormai uno dei generi televisivi più diffusi, sono invece sorprendentemente poche le serie tv ambientate in una cucina, o il cui meccanismo narrativo ruoti intorno alla preparazione del cibo. A guardare The bear (andata negli USA su FX on Hulu, inedita in Italia) viene da pensare che sia uno spreco di potenziale drammatico e, anche, quanto sia incredibile che un progetto del genere non sia stato tentato da noi.

In A casa tutti bene (Sky), per dire, la famiglia protagonista possiede un ristorante, ma ci si tiene talmente lontani dai problemi specifici del settore che non sarebbe cambiato granché se si fosse trattato di un albergo o di un concessionario d’auto.

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The bear, invece, scende subito nei dettagli: Carmy Berzatto, giovane promessa della cucina gourmet che ha lavorato come chef nei migliori ristoranti del mondo (il The French Laundry in California, il Noma a Copenhagen) torna a Chicago a seguito della morte del fratello Mikey e prende in gestione la sudicia paninoteca da lui lasciatagli in eredità. The original beef of Chicagoland è un locale di quartiere, con una buona reputazione ma fermo nel tempo, specializzato nell’Italian beef, un succulento panino di carne che è anche uno dei piatti tipici di Chicago.

La backstory di Carmy in realtà viene presentata un po’ alla volta: il pilota inizia in medias res e corre velocissimo alzando subito al massimo la tensione drammatica. I ritmi frenetici della cucina sono resi con grande efficacia, ma il peggio è che la disinvolta gestione di Mikey ha ridotto il locale sull’orlo del fallimento: un singolo incasso saltato potrebbe significare la chiusura. E in ogni episodio c’è un disastro al quale bisogna rimediare: una consegna sbagliata da parte di un fornitore, una valutazione negativa del dipartimento di igiene, un guasto alla linea elettrica. Mentre l’orario di apertura si avvicina inesorabilmente, bisogna trovare una soluzione perché la sopravvivenza è appesa a un filo.

Creata da Christopher Storer (Ramy, Dickinson), che firma la maggior parte delle regie e delle sceneggiature, The bear ha la forma di una comedy – episodi da mezz’ora, personaggi secondari a volte grotteschi, battute –, ma un tono molto realistico e un coefficiente di ansia elevatissimo. Il settimo episodio ne è forse l’esempio migliore, un unico piano sequenza vorticoso in cui si cerca disperatamente di evitare l’inevitabile.

Il gruppo dei personaggi crea un universo stratificato e complesso: Carmy è sospeso tra i due poli rappresentati da Richie, amico d’infanzia e storico impiegato del locale, ostile a ogni cambiamento, e Sydney, giovane recluta perfezionista che ha fatto gli studi di alta cucina. Questa opposizione richiama da un lato la gentrificazione, la perdita della vecchia amata Chicago per qualcosa di nuovo e sconosciuto, e dall’altro quella che potremmo chiamare una femminilizzazione dell’ambiente lavorativo: Richie, cresciuto in un mondo testosteronico che non esiste più, sbraita e agita i pugni, mentre Sydney cerca di innovare con il dialogo, la razionalità e l’empatia.

Qualche difetto c’è: un po’ troppo melodramma, una visione di Chicago molto romantica, alcune scelte musicali troppo didascaliche. Ma nel complesso The bear è senza dubbio una delle serie migliori dell’anno.

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