Tendenze

C’era una volta l’icona Perché ora è difficile avere oggetti di culto

La mediazione delle immagini della contemporaneità interrompe il rapporto fisico e allontana la magia dell'immortalità

di Stefano Salis

il radiofonografo di Achille e Piergiorgio Castiglioni prodotto da Brionvega

3' di lettura

No, probabilmente una classifica delle icone del design italiano, non avrebbe senso. Forse si potrebbe rimediare, giusto per lo spirito del gioco, con una formazione paracalcistica: ma ovviamente il numero sarebbe troppo ristretto e le esclusioni e le preferenze le assegnerebbe ciascun ct, ossia ciascun amante, o critico, del design. Facciamo la prova? Ecco un elenco, buttato giù così all’impronta: Arco, Eclisse, Parentesi; Caffettiera Bialetti, Tratto Clip, Poltrona Proust; Tolomeo, Superleggera, Atollo; Lambretta, Nesso: no no no, non può andare bene, direte scuotendo la testa. E dove è la 500 di Dante Giacosa, dove la Tonietta di Mari, il posacenere cubo di Munari, la Lettera 22 di Nizzoli, la Radio Cubo Brionvega di Zanuso e Sapper, o quell’altra meraviglia futuribile (ancora oggi) del radiofonografo dei Castiglioni. Per non parlare della Valentine. E, a proposito: e Ultrafragola, e Moscardino, e Snoopy? E i motoscafi Riva, le Lamborghini Miura, la Vespa?

Il fatto è che il design italiano, un sistema unico e probabilmente irripetibile, che in pochi decenni d’oro è riuscito a fondere industria ed estetica, forma e funzione, spregiudicatezza di visione e saldo ancoraggio alla tradizione, progresso nei materiali e nelle idee e sapienza artigiana e stile nel modo di vivere, ha fornito (al mondo intero, non certo solo al Belpaese) una quantità di oggetti e idee che resta sbalorditivo e quasi imbarazzante, per varietà, qualità, originalità. E non parliamo solo degli oggetti che “nascono” con la vocazione di “essere di design” (molte delle icone sopra nominate sono spesso una profezia che si autoavvera: diventa icona perché lo nasce per forza progettuale, ambizione di rottura, tensione fra bello e utile, un esempio che mi viene in mente subito, l’appendiabiti Cactus di Gufram) ma anche di quelli che lo diventano, come dire, loro malgrado: dalla caffettiera di cui sopra, alla cucitrice Zenith, fino alla anonima (in quanto a progettista; Alberto Bassi al tema aveva dedicato un bellissimo libro) molletta da stenditoio. La produzione italiana di design è il vero volto della nostra creatività migliore, stile e industria, anzi “arte che si innamora dell’industria”, come Gio Ponti (forse l’ur-designer di tutta la schiera che poi sarebbe seguita, certamente più specializzata di lui) aveva preconizzato e basti pensare, per dire, alla bottiglietta del Campari firmata da Depero per avere un immediato riscontro.

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Eppure. Eppure, anche visitando il, recentemente aperto, museo del Compasso d’Oro (il premio che dal 1954 si incarica di segnalare la migliore produzione in tutti i campi del design) di Milano, un dato si impone. «Gli oggetti devono fare compagnia» diceva Castiglioni: e molti di quelli che qui vediamo squadernati - con tanto di fasi progettuali a farci capire la densità di idee che si raggruma intorno a un oggetto - lo hanno fatto. Per intere fasi della nostra vita: decenni che costituiscono un “paesaggio” visivo, sensoriale e ovviamente di utilizzo quotidiano che descrivono come siamo stati italiani e come questi oggetti hanno caratterizzato la nostra esistenza. Ebbene, una cosa che salta all’occhio quando si guardano questi oggetti, è la loro data.

E il fenomeno che si impone è quello della difficoltà, per i prodotti di design più vicini a noi nel tempo, a diventare icone. Cosa significa? Una attentissima lettrice del design italiano, Chiara Alessi, proveniente da quella dinastia industriale che ha forgiato la vita quotidiana di milioni di italiani nell’ultimo secolo, aveva già provato a rispondere in un brillante pamphlet di qualche tempo fa, Le caffettiere dei miei bisnonni (Utet). Le ragioni sono molteplici e hanno a che fare con la realtà mutata del nostro scenario quotidiano, nel quale il rapporto con gli oggetti è sempre più mediato da “presenze” digitali, come se bastasse l’immagine a soddisfare la compagnia degli oggetti. Siamo, come ha detto il filosofo Douglas Rushkoff, costantemente immersi in un presente continuo: dimensione dove spazio e tempo, passato e futuro sono scomparsi o compressi: e questo comporta che la tensione progettuale dei personaggi del passato nel “tentativo” di immaginare il futuro sia come frenata.

Si vive in un eterno momento, fatto di immagini, scritte, idee, sensazioni magari anche interessanti o brillanti che vengono travolte di continuo da immagini, scritte, idee. In un universo social le icone mancano, forse, perché manca il tempo – vero – per fermarsi a contemplarle, che è esattamente il loro presupposto. Ed è un discorso che non vale solo per il design italiano, ma per qualsiasi aspetto della nostra contemporaneità.

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