premi letterari

Caccia allo Strega: i cinque finalisti raccontano i loro libri

di Eliana Di Caro

Da sinistra: Matteo Nucci, Alberto Rollo, Teresa Ciabatti, Armando Massarenti, Gianluigi Simonetti, Paolo Cognetti, Wanda Marasco

5' di lettura

Teresa Ciabatti, Paolo Cognetti, Wanda Marasco, Matteo Nucci e Alberto Rollo, finalisti del Premio Strega 2017, si sono confrontati all'auditorium del Mudec, a Milano, sotto la regia del critico letterario della Domenica del Sole 24 Ore Gianluigi Simonetti: i cinque hanno discusso di trame e stili nell’incontro organizzato dalla Fondazione Bellonci e dal supplemento culturale del Sole 24 Ore.

A introdurre la serata, Armando Massarenti, responsabile della Domenica, il quale ha ricordato come il premio Strega sia «un indicatore della qualità letteraria socialmente riconosciuta, e questa sintetica definizione spiega perché il riconoscimento sia al centro dell'attenzione, anche delle polemiche, con i retroscena, e gli attori che ci sono dietro, la fondazione Bellonci, le case editrici e gli autori. Al tempo stesso da sempre il Premio è in sintonia con quello che succede e va a catturare quanto c'è di buono nel mondo letterario». Un giudizio confermato da Gianluigi Simonetti, che prima di incalzare gli ospiti ha fatto una breve ricostruzione della manifestazione letteraria, spiegando che la qualità media degli ultimi anni si è forse un po’ alzata, che sono cambiati alcuni meccanismi (come quello della platea di votanti più larga), e nelle ultime edizioni sono arrivati al traguardo anche libri di qualità. «Per quel che riguarda il ruolo degli editori - ha puntualizzato Simonetti - conta soprattutto al momento della selezione iniziale: è lì che diventa un termometro della cultura». Si è quindi entrati nel vivo dell'incontro, con la lettura di brani e una domanda per ciascun autore, davanti a un pubblico molto attento.

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Matteo Nucci, romano, classe 1970, autore di È giusto obbedire alla notte (Ponte alle Grazie), ha ambientato il suo romanzo tra le baracche e le chiatte lungo il Tevere, ai margini della società, in una comunità reietta, dove arriva il medico Ippolito. «Sono fradicio di antichità, i grandi temi di riflessione non sono superati, attualizzare il passato mi fa accapponare la pelle. La Xenia è l'istituzione greca fondata sull'accoglienza dello xenos cioè straniero ma anche ospite: gli si offre un bicchiere di vino e basta, senza chiedergli niente, in Grecia è una cosa attuale, nel sud Italia pure. E accade anche in una parte della metropoli, lungo il Tevere dove ci sono piccole comunità di persone che vivono di poco: osti, anguillari, abituati ad accogliere chi arriva. Nel caso del mio libro, Ippolito, un uomo che fugge il centro di Roma, la città moderna, dove è stato archeologo. Lo lascia per affrontare il dolore, con cui deve fare i conti. Un uomo che con dei rudimenti di medicina cura gli altri ma sta cercando di curare se stesso». Tutto questo viene reso con dialoghi dove compaiono il romanesco e vari tipi di gergo, ma anche «toni più sentenziosi e professorali quando si esprime Ippolito, dolorosi e sincopati se parla il narratore».

Con il libro di Paolo Cognetti (Milano, 1978), Le otto montagne, edito da Einaudi, si cambia completamente scenario, anche se l’ambientazione resta forte come è dichiarato sin dal titolo, ma non solo. Simonetti sottolinea come al soggetto del romanzo, cioè l'amicizia tra due giovani - uno montanaro, uno cittadino - corrisponda una lingua concreta, con pochi aggettivi, antiretorica come il loro modo di vivere la montagna. «In questa lingua c'è un bel pezzo della mia storia di lettore», esordisce Cognetti. «Per anni e anni ho letto solo la letteratura americana, scoprendola da solo, dopo aver ripudiato quella italiana che avevo sentito come un'imposizione a scuola. Questa sobrietà non è istintiva, è cercata ed è frutto di studio. È la lezione americana. Come lo è quella sui grandi spazi selvatici. La nostra è una letteratura urbana, che si muove tra le case, tra gli spazi trasformati dall'uomo. Loro hanno il mito della frontiera. La mia montagna è un West trasferito sulle Alpi. Ma a un certo punto non era più sufficiente, da certi luoghi privati gli americani erano lontani. Così ho incontrato Rigoni Stern (Il sergente nella neve), Fenoglio, Primo Levi...».

Dalla montagna a Orbetello. Un altro salto tematico, e anche stilistico, forte. Teresa Ciabatti, 45 anni, autrice de La più amata (Mondadori) legge un brano e poi ascolta con il pubblico la presentazione di Simonetti, che ricorda come il suo sia un classico esempio di autofiction («Genere narrativo che racconta una storia il cui protagonista e il narratore si presentano con le stesse generalità e lo stesso vissuto dell'autore») pervaso «da una grande ansia di verità: l'inchiesta sul passato della famiglia Ciabatti, del padre, della psicologia della madre e in fondo soprattutto della figlia denuncia l'ossessione di questa ansia di accertamento che è difficile trovare in un libro». L'autrice però sottolinea come la «voce narrante non sia equilibrata, ma euforica e dolente, senza centro, anche fossero veri i fatti quel che conta è il punto di vista alterato e quindi la ricostruzione di questa corrispondenza fra la Teresa Ciabatti del libro e la Teresa Ciabatti che sono io è pochissimo interessante. La verità conta poco, conta la percezione. Io non ho risolto niente, nè fuori nè dentro, sono contro l'idea del romanzo come risoluzione. Il libro vuol rimanere dormiente come lo è la madre».

Della storia di Wanda Marasco (Napoli, 1953), La compagnia delle anime finte pubblicata da Neri Pozza e ambientata nel dopoguerra a Napoli, con intrecci familiari e di malaffare, prostituzione e usura, si è parlato soprattutto a livello stilistico. Simonetti ha osservato che più che negli altri romanzi, l'elemento preponderante qui è l'esuberanza retorica: «La metafora ha un ruolo centrale, spesso disposta in catene di metafore o compare la doppia specificazione ossimorica: come se la voce narrante volesse dire, o evocare, tutto e il contrario di tutto». L'autrice ha spiegato l'origine di questa letterarietà, che risiede nell'unione di tre proprie passioni: la poesia, il teatro e una grande voglia di narrare.

La serata si è chiusa con Alberto Rollo e il suo Un'educazione milanese (Manni). Alla prima prova narrativa, 66 anni, Rollo racconta una storia di efficienza e rigore, di mondi che s'incontrano - quello operaio del padre e quello borghese degli amici - l'esplorazione della città. Ci sono la scoperta della politica, del rock, dell'amore. Non è solo fiction, ma neanche solo autobiografia e, ricorda Simonetti, c'è uno sguardo laterale rispetto alla realtà. «A latere c'è una cosa molto importante, una riflessione sulla memoria», spiega Rollo. «Mi veniva naturale riflettere e agire. È la memoria orizzontale, su cui mi ha illuminato Annie Ernaux: si dispongono i fatti ed entrano come fantasmi, come lame, come complicazioni e sentono che vogliono ragione di quell'appartenenza. Per esempio i funerali di Giangiacomo Feltrinelli, dove mio padre era lì con il pugno alzato. Quella scena teneva insieme un rappresentante della classe operaia e un borghese libertino oggetto di una trama misteriosa». Su questa immagine molto milanese si è chiusa la carrellata della cinquina. Non senza che Stefano Petrocchi, direttore della Fondazione Bellonci, abbia espresso la sua soddisfazione: «Prima di leggere una storia leggiamo una scrittura. Stasera abbiamo capito dove hanno collocato il loro sguardo i nostri autori».

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