Caffè, dai porti della Liguria il 60% dell’import italiano
Gli scali di Genova e Savona sono leader per l'interscambio del prodotto base. Da oltre un secolo si è sviluppato anche un distretto produttivo che ora teme l'emergenza sanitaria
di Raoul de Forcade
4' di lettura
Oltre il 60% delle importazioni di caffè in Italia passa attraverso i porti di Genova e Savona. Lo testimoniano i dati doganali, che confermano come la Liguria (dove viene sbarcata anche la maggior parte del prodotto poi sdoganato a Novara e Torino) sia la maggiore porta d’ingresso del caffè in Italia. Al secondo posto (col 20%) c’è Trieste, che negli anni ’70, quando il porto di Genova mal funzionava e la dogana giuliana consentiva di pagare le imposte sul prodotto (allora altamente tassato) a 180 giorni, contro i 90 degli altri scali, aveva conquistato la supremazia. Al terzo posto c’è Napoli, che supera di poco il 10%.
La Liguria, dunque, col recupero di traffici del porto di Genova, è tornata da tempo a essere il principale punto di snodo italiano del commercio del caffè, con numerose aziende di lavorazione e torrefazione sul territorio. Tra queste ci sono Covim, Ekaf (col marchio Cellini), Torrefattori riuniti (coi brand Rostkafè, Boasi e Pera), la spezzina Italcaffè, la savonese Minuto. E poi alcuni marchi nati da piccole torrefazioni, come Caboto, Rolando e Bocchia.
Una delle realtà più antiche del settore è la Covim, che inizia il suo percorso industriale nel 1902, quando Federico Solari fonda, a Genova, la Società internazionale per la torrefazione igienica del caffè. La storia va avanti e, nel 1954, un altro Federico Solari, discendente e omonimo del fondatore, insieme al fratello Gianmaria, lancia la marca di caffè Moka imperiale, per poi fondare, nel 1974, la Compagnia mediterranea caffè, costruendo il primo stabilimento di produzione a Tribogna (Genova), dove l’azienda risiede tuttora. Intanto Osvaldo Picci, Adone Macoggi e Paolo Guglielmoni hanno fondato nel 1969 la Coveca. Nel 1991 le due aziende si fondono e nasce Covim, ancora guidata dalle stesse famiglie e al cui vertice oggi siedono Luca Solari e Claudio Picci. L’impresa, che nel 2019 ha superato i 50 milioni di fatturato, oggi mantiene una produzione, impostata su 19 linee, di 7.900 tonnellate di caffè torrefatto l’anno (il 19% della quale va in export), ma la sua capacità è superiore alle 10mila tonnellate. E sono stati avviati «investimenti per 10 milioni di euro - spiega Federico Solari (anche lui omonimo del fondatore e dello zio) - per far fronte all’aumento della produzione, conseguente alla domanda in crescita, nonché per modernizzare gli impianti, in direzione sempre più informatizzata e attenta alla sostenibilità ambientale (cercata anche con la produzione di capsule compostabili e caffè biologico, ndr)». Nel 2018, prosegue, «abbiamo acquistato a Tribogna la vicina area ex Elce, grazie alla quale ora disponiamo di 29mila metri quadrati complessivi. E stiamo costruendo due nuovi magazzini: uno per il crudo (cioè il caffè verde, ancora da lavorare, ndr), che sarà composto da 60 silos da 23 tonnellate ciascuno e dovrebbe partire tra qualche mese, e l’altro, nell’area ex Elce, per il prodotto finito. Questo sarà pronto nell’arco di circa due anni».
Punta su nuovi investimenti pure la Ekaf, azienda, anche questa, con una lunga storia. Nasce nel 1933 a Genova, per volontà di Ugo Merialdi, che inizia l’attività col marchio Eureka. Nel 1988 la società acquisisce la gestione e il patrimonio del brand bolognese Filicori. Nel 1991, infine, la famiglia Pieri, proprietaria della Torrefazione Columbia a Livorno, prende il controllo di Ekaf e lancia il caffè Cellini. Oggi la ditta ha uno stabilimento a Genova Bolzaneto su un’area di 11mila metri quadrati, 6.500 dei quali coperti. «Siamo passati - spiega Umberto Durante, direttore generale dell’azienda - da un fatturato di 38 milioni nel 2018 a 40,5 milioni di ricavi nel 2019 (+7%), il 48% dei quali su estero, con una crescita in volumi di oltre il 13%. Nel biennio 2020-2021 sono previsti, a budget, investimenti per circa 4 milioni, per una nuova linea di capsule compostabili, un’ulteriore linea confezionatrice per sacchetti per il macinato e l’integrazione di strumenti a supporto del nostro laboratorio qualità e della scuola del caffè Cellini. Abbiamo inoltre stilato un programma, che copre un decennio, per incrementare la sostenibilità ambientale, economica e sociale dell’azienda. Puntiamo a dedicarci sempre più al compostabile, a eliminare plastiche e alluminio, a ridurre gli imballaggi, a ottimizzare i consumi e a passare all’elettrico per le consegne in città. Stiamo studiando anche un nuovo sistema di riscaldamento che abbatte i centri di umidità, su cui investiremo circa 250mila euro. Il team per la sostenibilità doveva partire l’1 febbraio ma è stato interrotto dal coronavirus». L’emergenza epidemia sta colpendo in modo netto il mondo del caffè. Sia Solari che Durante sottolineano come la chiusura di bar e ristoranti abbia causato una forte flessione del lavoro, mentre il vending (distributori automatici) subisce, con gli uffici chiusi, un calo di circa il 70%. Una situazione che l’aumento delle vendite nella Gdo non arriva a compensare.
Anche Luca Romani, consigliere delegato di Romani & C, operatore logistico genovese specializzato (dagli anni 30) in coloniali, con magazzini a Pozzolo Formigaro (e filiali a Trieste e Koper), testimonia il danno causato dalla pandemia. L’azienda fattura 11 milioni l’anno e conta 40 addetti. «A Pozzolo - spiega - disponiamo di una sede con un’area da 50mila metri quadrati. Lì abbiamo un impianto di lavorazione e selezionatura del caffè verde che ci permette di scaricarlo dai container che arrivano dal porto, stoccarlo, lavorarlo e reimballarlo per distribuirlo, tramite trasportatori che operano in appalto, ai nostri clienti: le torrefazioni. Lo scorso agosto abbiamo ampliato l’area coperta da 12mila a 20mila metri quadrati e altrettanto abbiamo fatto, con numeri analoghi, per i piazzali scoperti». Con il coronavirus, sottolinea, «temo si avrà a che fare a lungo. I clienti dovranno rimodulare acquisti e contratti: quella che si pensava fosse materia prima da utilizzare in un anno sarà smaltita magari in un anno e mezzo. E anche i produttori iniziano ad avere problemi con l'epidemia. A fine anno saranno cambiate molte strategie».
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