Calder nel vento atlantico
La grande retrospettiva dello scultore americano allestita al Centro Botin: un’ottantina di opere, con alcuni dei suoi «Mobiles» e dei suoi «Stabiles» più significativi
di Angela Vettese
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Il vento. Si direbbe sia questo il filo che lega la retrospettiva dello scultore americano Alexander Calder (1898-1976) e il Centro Botin, che la ospita mirabilmente. È infatti la brezza atlantica ad avere ispirato Renzo Piano, creatore dello scrigno sulla baia di Santander che, da due anni, ospita il Centro e le sue mostre, la cui forma ricorda sia uno scafo sia una doppia vela. Una splendida narrazione. Ed è lo stesso Piano, che conobbe l’artista nel 1971 e che da allora se ne considera quasi un doppio, che ha voluto personalmente occuparsi di questo allestimento. Le basi su cui poggiano le sculture sono piattaforme fluttuanti sopra cuscini d’aria, che ricordano quelle inventate da Carlo Scarpa per il Museo Castelvecchio di Verona. Ciascun gruppo di opere è una storia ed è nel segno della narrazione, di nuovo, che si dipana la mostra Calder: Stories. L’itinerario attraversa cinque decadi di lavoro, è stato curato da Hans Ulrich Obrist ed è stato realizzato in stretto contatto con la Calder Foundation di New York, da cui viene buona parte dei lavori esposti, un’ottantina nel complesso.
Perché l’aria, il vento, il fluttuare? Chiunque abbia un poco di familiarità con Calder sa che l’artista, ingegnere di formazione e giocoliere per vocazione, ha sempre lavorato sul binomio movimento-stabilità. Quando inventò la sua prima scultura cinetica, una papera in foglio d’ottone regalata ai suoi genitori per Natale, aveva dieci anni. Poi venne l’ossessione del circo, di cui creò cinque valigie di personaggi che realizzava in filo di rame o ferro e legno. Gli piaceva l’idea della marionetta che animava lui stesso, per divertire gli amici – talvolta gratis, talaltra a pagamento per pagarsi l’affitto della sua casa parigina - e poi per i suoi figli.
Nel mezzo, dopo l’incontro nel 1930 con Piet Mondrian, ci fu la rivelazione che si poteva anche dismettere la figura e raccontare la vita attraverso altri sistemi: bastava solo il movimento, appunto, per creare emozione, dipingendo con i colori di base – rosso, giallo brillante, verde, gli stessi di Juan Mirò - la superficie di pale o foglie molto stilizzate. Queste emergono da strutture filiformi, in equilibrio precario tra ganci e curve gentili, pronte a muoversi con un soffio e a ritornare poi al loro equilibrio. Come quando noi stessi ci sentiamo oscillare per via di un turbamento o un desiderio, salvo recuperare poi il nostro stato di calma. Una calma apparente, perché noi, così come quelle sculture che copiano i nostri stessi stati d’animo, siamo, purtroppo o per fortuna, sempre pronti a riprovare le oscillazioni del cuore. La relazione tra alcuni grandi Mobiles – questo il nome che Marcel Duchamp coniò per le sculture mobili di Calder - e il cielo sopra le onde che si intravedono dalle grandi vetrate, a Santander, aiutano a fare considerazioni sul senso transitorio eppure ludico e sensato dell’esistenza.
La rassegna, comunque, non ha solo il merito di farci vedere alcuni dei Mobiles più belli di Calder e anche dei suoi Stabiles – questa volta il termine fu coniato da Hans Arp – che non sono sospesi al soffitto o non hanno comunque parti mobili, ma suggeriscono comunque la crescita libera nello spazio di gorghi o alberi o animali. Il curatore della mostra ha da sempre un’attitudine specifica per la ricerca dei progetti incompiuti. Qui ne troviamo alcuni deliziosi, come i sei modellini realizzati nel 1939 per la Smithsonian Gallery di Washington, nonché una ventina di segni di bronzo, quasi pennellate giapponesi tridimensionali, concepiti per essere alti dieci metri, per venire tradotti in cemento e installati in un edificio modernista. Ancora, in una serie di schermi danzano animazioni digitali tratte dai disegni che Calder fece per coreografare balletti con musiche di Edgar Varèse ed Erik Satie, tra gli altri. Un caso fortunato ma anche un po’ fuorivante ha voluto che le opere maggiori di Calder siano presenze gigantesche, concepite in modo alquanto solitario anche se sempre all’interno di edifici di grande transito e in cui, appunto, il transito delle persone e dell’aria ne diviene una parte attiva: pensiamo ai capolavori presso l’aeroporto JFK di New York (1957), presso l’Unesco a Parigi (1958) e anche, in Italia, al Teodelapio di Spoleto (1962), testimonianza della prima mostra al mondo pensata esplicitamente per lo spazio pubblico. In questo Calder fu un pioniere, così come lo fu per l’arte cinetica in generale: solo nel 1955 il curatore Pontus Hulten lo unì ad altri in una collettiva che avrebbe fatto storia, presso la galleria di Denise René, intitolata Le Mouvement. Visto con gli occhi di oggi, Calder fu un iniziatore anche della recente arte partecipativa, perché senza la nostra interazione – un soffio o anche il nostro solo passo – le sculture perderebbero senso.
La mostra al Centro Botin ci racconta, comunque, quanto l’artista avrebbe amato dedicarsi ancor di più a opere d’arte collettive, nelle quali fossero coinvolti anche autori di altre discipline: architettura, danza, musica, teatro furono sempre al centro dei suoi interessi, ma non sempre riuscì ad andare fino in fondo a una simile inclinazione. Persino l’automobile esposta, una BMW decorata nel 1975, ci parla del suo desiderio di far parte di un coro a più voci: concepita come scultura in movimento veloce, quell’automobile era fatta per essere un gioco adulto da godere in compagnia, come accade ai bordi di una pista. È ora, insomma, di rivedere lo spirito dell’artista, cosa che in Italia è iniziata ridando circolazione alle fotografie che Ugo Mulas scattò in mesi di convivenza. L’ultimo atto della mostra spagnola è l’invito ad artisti di oggi a riguardarlo, interpretandone lo spirito attraverso filmati. Belli quelli di Agnes Varda e di Rosa Barba. Ma potrebbe essere solo un inizio, il primo segno di una bora che gira e che ci mostra quanto attuale sa essere un artista nato nell’Ottocento.
Calder: Stories
Santander, Centro Botin
fino al 3 novembre
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