Cambia il vento dell’economia globale. E l’Italia è a rischio recessione
di Piero Fornara
8' di lettura
Quando Bob Dylan intonava la sua famosa canzone Blowin’ in the Wind, erano gli anni 60 del secolo scorso, bastava un soffio di vento per portare un po’ di ottimismo esistenziale. Già da alcuni mesi sta cambiando il vento dell’economia: la globalizzazione degli ultimi decenni molto ha prodotto, distribuendo però male i suoi risultati. Si sono polarizzate le posizioni economiche dei ceti sociali, con pochi dotati di redditi molto ampi e tanti a basso reddito, con potere d’acquisto stagnante o in diminuzione e la conseguente contrazione del ceto medio. «The Economist» prevede una mild recession (una recessione mite) ma, secondo il settimanale britannico, non siamo attrezzati per affrontarla, come invece avvenne nella grande crisi scoppiata nel 2008, grazie a una cooperazione internazionale senza precedenti. Questa volta gli ostacoli sono principalmente di natura politica, per la spaccatura fra “globalisti” e “sovranisti” che non agevola la concertazione di interventi preventivi.
Il rapporto sull’economia globale e l’Italia «Il mondo cambia pelle?», realizzato dal Centro Einaudi di Torino e presentato oggi a Milano - in anteprima per la stampa presso Ubi Banca (partner dello studio dal 2009) e poi nella sede di Assolombarda – fotografa un mondo in mutazione, soprattutto l’Occidente al quale apparteniamo. Una frattura corre lungo l’Atlantico, tra l’America di Donald Trump che sfida il commercio internazionale e l’Unione europea sotto scadenza elettorale, nell’anno della Brexit e delle barricate dei “gilet gialli” a Parigi. Quasi ogni giorno si creano nuove incertezze e instabilità, con Mosca al bivio tra Washington e Pechino; l’Asia sempre più dominata dal crescente ruolo della Cina (per la cronaca, registriamo oggi il +6,4% del Pil cinese nel quarto trimestre 2018, il più basso degli ultimi dieci anni); il Medio Oriente, laboratorio della guerra perenne; le ripetute stragi dei migranti nel Mar Mediterraneo. Giunto alla XXIII edizione e pubblicato da Guerini e Associati (pagg. 225, euro 21,50), il rapporto, a cura di Mario Deaglio, docente emerito di economia internazionale all’università di Torino, si avvale anche dei contributi di Chiara Agostini, Giorgio Arfaras, Francesco Beraldi, Gabriele Guggiola, Paolo Migliavacca, Giuseppe Russo e Giorgio Vernoni.
Una ripresa tardiva e presto rallentata
La ripresa italiana dalla crisi del 2008 è arrivata solo nel 2014-2015, in ritardo sugli altri principali Paesi, fra l’altro senza interessare tutti i settori (per esempio l’edilizia è ancora debole). Adesso l’Italia si trova ad affrontare una congiuntura economica in rallentamento, che in queste prime settimane del 2019 sembra assumere il nome, meno gradito, di recessione. «Lo scenario geopolitico mondiale e il quadro nazionale non ci consentono di perdere tempo, nell’attesa della verifica dei saldi di finanza pubblica, che vedremo tra sei mesi», ha affermato il presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, aprendo il dibattito sul rapporto (moderato dal direttore del «Sole 24 Ore» Fabio Tamburini). «Ora più che mai – ha aggiunto Bonomi – abbiamo bisogno di politiche anticicliche per invertire il pericoloso ripiegamento che abbiamo imboccato».
Dopo la produzione industriale italiana di novembre, che ha mostrato un calo del 2,6% su base annua e dell'1,6% su ottobre (insieme con dati altrettanto negativi di Germania, Francia, Spagna e Gran Bretagna) e, in particolare, la pesante caduta della produzione nel settore auto – che secondo i dati Istat ha registrato un calo del 19,4% su base annuale e dell'8,6% su base mensile – il 18 gennaio è arrivata la doccia fredda di Bankitalia sulla crescita.
La proiezione del Pil - si legge nel bollettino economico - è pari allo 0,6% quest'anno, 0,4 punti meno rispetto a quanto valutato in precedenza. «Dopo che la crescita si era interrotta nel terzo trimestre, gli indicatori congiunturali disponibili suggeriscono che l'attività potrebbe essere ancora diminuita nel quarto», scrive ancora Via Nazionale. Se la previsione dei due trimestri negativi verrà confermata, entriamo in una “recessione tecnica”. Giù anche i consumi delle famiglie: nel terzo trimestre, in rallentamento graduale dall'inizio dell'anno, sono scesi dello 0,1 per cento, come pure gli investimenti, diminuiti dell'1,1% nel terzo trimestre (e si aspetta un rallentamento dei piani d'investimento delle imprese anche nel 2019).
Per il vice presidente del Consiglio e ministro del Lavoro Luigi Di Maio le cifre fornite dalla Banca d’Italia sono «apocalittiche», anche perché «non è la prima volta che le stime di Via Nazionale si rivelano infondate». Il governo giallo-verde (che, va ricordato, secondo i sondaggi ha il sostegno di quasi il 60% dell’elettorato), nella prima versione della manovra finanziaria, aveva previsto l’1,5 per cento. Oggi però il Fmi – nell’aggiornamento del World Economic Outlook, presentato alla vigilia del Forum mondiale di Davos - ha tagliato di 0,4 punti la sua stima sulla nostra crescita, in linea con quanto indicato da Bankitalia. Più prudente il ministro dell’Economia e delle Finanze Giovanni Tria, che non vede l’Italia in recessione, ma solo in «stagnazione». Intanto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha smentito che ci sia dietro l’angolo una manovra correttiva, quantificata dal «Sole 24 Ore» due giorni fa da 4 a 7 miliardi, nell’ipotesi che l’economia in frenata faccia schizzare il deficit al 2,2 o anche al 2,4% del Pil. Manovra correttiva, peraltro, che potrebbe essere messa in conto dall’Ecofin di domani, che deve pronunciarsi sull’Italia, evitando di avviare la procedura d’infrazione per debito.
La competitività (parzialmente) ritrovata dell’export
«Nella fragile ripresa italiana – si legge nel rapporto del Centro Einaudi – non sono mancate le soddisfazioni per i miglioramenti della struttura economica». Il potere d’acquisto delle esportazioni italiane, tra il 2009 (anno base di questi calcoli) e il 2017 è progredito del 25%, ossia a un tasso annuo di quasi il 3 per cento. «Il boom dell’export deriva anche da un deciso apprezzamento del prodotto venduto all’estero grazie al miglioramento della qualità, solitamente misurata dal prezzo». I risultati positivi delle esportazioni hanno dato una spinta robusta alla variazione del Pil senza peraltro riuscire a spingerlo in prossimità del 2%, obiettivo macroeconomico importante, nel medio periodo, per ridurre in maniera “indolore” (senza tagli alla spesa pubblica) il rapporto debito pubblico/Pil.
Quanto al sistema bancario italiano «credo che tutti i bubboni che dovevano scoppiare sono scoppiati», ha risposto il professor Mario Deaglio a una domanda posta nell’incontro con la stampa. In Italia il problema per le banche «è quello degli Npl (i crediti deteriorati o non performanti), ma in altri Paesi non stanno meglio considerato che devono fare i conti con i derivati». Il 2017 e in parte anche il 2018 è stato il periodo delle cosiddette operazioni “jumbo”, in grado di cambiare la situazione di una banca e rimetterla sui binari di una maggiore normalità, riducendo l’esposizione ai rischi. «Lo stock di crediti deteriorati ha continuato a ridursi – ha proseguito Deaglio - facendo scendere i volumi lordi dai 341 miliardi di euro del 2015 ai 264 di fine 2017. Si tratta di miglioramenti importanti, ma quelli non performanti rappresentano ancora il 17,6% per cento del totale, per un ammontare, quindi, non indifferente».
L’aumento della povertà in Italia
Una caratteristica distintiva della situazione italiana è la presenza di una consistente e crescente fascia di popolazione povera, secondo le definizioni ormai accettate a livello europeo. L’aumento della povertà è stato accelerato dalla recessione post-2008, abbinato al diffondersi di “rancore” e “cattiveria”, come indicano i rapporti Censis 2017 e 2018.
Ma per quanto si può capire, il reddito di cittadinanza corre il rischio – contro il quale il governo (in particolare il M5S) si è apertamente espresso – di andare nella direzione di un sussidio, cui si accompagna un inserimento lavorativo di competenza dei centri per l’impiego. Fra l’altro c’è l’incognita sull’arrivo dei 6mila tutor dei disoccupati, che dovrebbero essere assunti attraverso una selezione o un concorso, che potrebbe interessare alcune decine di migliaia di candidati. Il termine “navigator”, coniato dal vicepremier Di Maio riferendosi al “tutor”, per chi ha avuto la ventura di apprendere l’abc di internet nella seconda metà degli anni 90, ricorda curiosamente il primo browser grafico di successo della storia dell'informatica, sviluppato da Netscape.
Usa: capitalismo vincente, ma poco sostenibile
Formalmente protagonista della scena mondiale, l’economia americana ha tuttavia preso a scricchiolare. La ripresa, una delle più lunghe della storia della congiuntura americana, è anche quella meno intensa, ossia con la minima crescita media annua del Pil.
Dopo 37 trimestri di crescita, il Pil americano in termini reali è aumentato del 22%, crescendo a una velocità media annuale del 2,2%; dopo pari 37 trimestri, l’espansione del 1991-2000, che molti ricordano come quella attribuita a Bill Clinton, aveva fatto crescere il Pil del 40%, quasi il doppio dell’espansione in corso. Nello stesso intervallo di tempo, il rapporto debito pubblico/Pil era sceso di 10 punti, approdando sotto la soglia di sicurezza del 60 per cento. Nella ripresa attuale, invece, il debito pubblico è passato dal 62 al 104 per cento del Pil e, poiché ogni dollaro che hanno prestato le future generazioni americane equivale al valore attuale delle imposte per rimborsarlo, parte della ripresa è stata “presa a prestito” dagli esercizi di bilancio nei quali, prima o poi, l’aumento delle imposte frenerà l’economia.
Quando all’inizio del 2018 è diventato chiaro che la nuova presidenza della Fed avrebbe mantenuto o accelerato la traiettoria di rialzo dei tassi, Wall Street ha temuto di doversi dimenticare la propria capitalizzazione e ha passato i primi tre mesi dell’anno al ribasso; tuttavia, è intervenuta la riforma fiscale del presidente Donald Trump, somministrando “vitamine fiscali” (anche queste prese a prestito) al paziente a cui erano state tolte quelle monetarie.
«Adesso – scrive il rapporto del Centro Einaudi - siamo all’ultimo atto: gli investitori, cinicamente, non sanno se credere o no all’esito positivo della scommessa fscale di Donald Trump, ma ne approfittano, in attesa di capire come andrà a finire, prorogando il rally di Wall Street. Se tra dodici mesi la politica fiscale avrà prodotto più debito pubblico che Pil, sarà difficile non vedere le nuvole fiscali in arrivo sia sulla Borsa sia sull’economia reale, che in America, come sempre, tendono a viaggiare appaiate».
Geopolitica, il mosaico diplomatico si complica
Il 2018 è stato un anno di vertici politici al massimo livello, soprattutto per gli Stati Uniti. Secondo il presidente Donald Trump - che li predilige, meglio se in forma bilaterale, perché così può far valere più facilmente il suo strapotere geo-politico ed economico-commerciale nel negoziato diretto - sono uno strumento ideale con cui cercare di rilanciare la leadership globale di Washington all’insegna dell’obiettivo “Make America great again”.
«L’approccio aggressivo scelto per conseguire questo fine – scrive Paolo Migliavacca nel capitolo sulla politica internazionale - non appare però il più proficuo. Anche perché nel mirino statunitense, paradossalmente, sono finiti più gli alleati che i potenziali nemici. Nato e Unione Europea, in particolare, sono state giudicate obsolete e ostili agli interessi americani, accusa che ha ulteriormente indebolito tali organizzazioni, finora piloni portanti dell’architettura “imperiale” americana».
Lo scenario di fondo resta dominato da un confronto “tripolare” degli Usa con Cina e Russia, ritenuti da Washington gli avversari più pericolosi. «Ma invece di favorire l’emergere delle contraddizioni esistenti tra i due Paesi, cercando di portare la Russia al proprio fianco – prosegue l’autore - l’America di Trump (che pure sulla carta non disdegnerebbe un rapporto migliore con Mosca) sembra ossessionata dall’idea di schiacciare il rinascente nazionalismo russo, giudicato tanto dai democratici quanto dai repubblicani come espansionista. Finendo in questo modo per alimentarlo». Il clima di nuova Guerra fredda che si è instaurato nel mondo favorisce così il rafforzamento di una coalizione russo-cinese che potrebbe sfidare, su un piano paritario, i residui sogni statunitensi di restare ancora a lungo la “potenza unilaterale”.
La “sostenibilità” chiave di lettura del futuro
«Il venir meno di punti di riferimento fissi, di ideologie e religioni fortemente condivise può dare al lettore un senso di vertigine». Come se ne esce? L’unica soluzione che sta prendendo corpo è rappresentata dalla sostenibilità, una “chiave di lettura” che si estende dal livello personale al livello planetario e può diventare un “sostituto delle ideologie” nella faticosa ricerca di un sistema di dialogo del futuro.
Lo sviluppo è sostenibile quando soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri. Come dice un proverbio degli indiani d’America scelto come epigrafe nelle conclusioni del rapporto: «Noi non ereditiamo la Terra, la prendiamo a prestito dai nostri figli».
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