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Cannabis, ecco quando l’agricoltore che la coltiva non commette reato

I due indagati avevano preso in affitto sette serre e si erano limitati a coltivare le piantine, oltre 11 mila, astenendosi da qualunque tipo di lavorazione

di Patrizia Maciocchi

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3' di lettura

Non può essere contestato il reato di coltivazione e vendita di sostanze stupefacenti agli agricoltori che affittano le serre e si limitano a curare la crescita delle piante di canapa per consegnarle ad una società che vende on line hashish derivato dalla canapa sativa e oli di canapa. Questo in virtù di un regolare contratto con la Srl senza lavorare o trattenere le piante. La Cassazione, respinge così il ricorso del Pubblico ministero che contestava la decisione di dissequestrare 11 mila piante di marijuana, escludendo i reati contestati agli indagati. Per il Tribunale del riesame la coltivazione era legale perchè il principio attivo era 0,36, dunque sotto la soglia dello 0,6% di Thc. Ad avviso della pubblica accusa il sequestro andava mantenuto perchè c’erano gli indizi di reato.

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Le condizioni per la coltivazione

Per il Pm la coltivazione è lecita quando rispetta tre condizioni: la varietà di cannabis deve essere iscritta nel catalogo delle piante agricole, avere un contenuto di Thc inferiore allo 0,2% e, infine, va coltivata solo per la produzione di fibre o altri usi industriali. Nel caso esaminato i contratti stipulati con la società, anche se formalmente validi, avevano lo scopo far apparire lecite condotte invece illegali. La Srl, aveva spiegato il Pm «vende on line infiorescenze di canapa. La circostanza che tra i prodotti in vendita della (omissis) ve ne siano alcuni consentiti (in misura peraltro minoritaria) non fa venire meno la destinazione illecita della coltivazione. I due indagati hanno coltivato una varietà omologata, ma con un tenore di Thc superiore allo 0,2 e per una finalità non consentita dalla norma». Il Pm chiedeva dunque di escludere la non punibilità. Quanto al sequestro andava mantenuto perché la commercializzazione delle inflorescenze è un reato anche se il contenuto di Thc è inferiore ai valori fissati dalla legge 242/2016 sulla coltivazione di cannabis ad uso industriale e cannabis light.

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Il regolare contratto e l’assenza di lavorazione

La Cassazione considera inammissibile il ricorso del Pm. La Suprema corte valorizza il regolare contratto di locazione che riguardava le serre, utilizzate per l’essiccazione, e il fatto che i due indagati si erano mossi in linea con la legge «impiegando sementi certificate, conservando il cartellino identificativo e la relativa fattura di acquisto, astenendosi da qualsiasi tipo di lavorazione sulla pianta». Per affermare il reato a carico dei due agricoltori non basta il sospetto che la merce fosse destinata ad un uso diverso da quello indicato dalla legge. E questo perchè l’attività messa in atto dai due coltivatori era lecita e non avevano il dovere di interessarsi di quanto avrebbe fatto l’acquirente che, comunque appariva in regola dalle visure camerali. Quanto alle analisi sulle sostanze avevano dato un risultato medio dello 0,6%di Thc, inferiore al limite dello 0,6% citato.

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Il precedente sulla vendita di cannabis light

La Cassazione con la sentenza 13745 del 2020 la Cassazione aveva bollato come illegale il commercio o anche solo la messa in vendita di cannabis. E questo chiarendo che non ha alcun senso «definire la sostanza come “light” alla luce della quantità di principio attivo in essa contenuto». In quell’occasione la Suprema corte aveva affermato la necessità di escludere in radice «la tesi difensiva del “doppio binario” (lecito/illecito), a seconda del superamento o meno della soglia dello 0,5% di principio attivo che non ha alcun aggancio normativo; la detenzione per la vendita, la messa in commercio e la vendita di cannabis (foglie, infiorescenza, olio, resina) sono tutte condotte alternativamente previste e sanzionate come reato».

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