Carbon tax alla frontiera, il debutto solleva timori di rincari e ricorsi Wto
Impatti su acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, elettricità e idrogeno. Per la Ue gli extra costi saranno di 27 milioni di euro l’anno, ma per molti analisti rischiano di essere più elevati e colpire i consumatori finali. Nuovi contraccolpi in vista anche per le rotte di rifornimento
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Partenza soft, ma non indolore per la nuova “tassa” europea sulla CO2 d’importazione, che fin dai primi mesi di applicazione rischia di provocare ulteriori rincari e scossoni alle catene di rifornimento, già messe a dura prova dalla guerra in Ucraina e dalle crescenti tensioni commerciali con la Cina.
Il Cbam (Carbon Border Adjustment Mechanism), noto anche come carbon tax alla frontiera, è entrato in vigore domenica 1° ottobre e nella prima fase di applicazione, che durerà fino a dicembre 2025, interessa un ambito circoscritto di transazioni e non introduce alcun obbligo di pagamento.
Ai soggetti coinvolti – circa un migliaio di imprese in prima battuta – per il momento viene solo richiesto di comunicare su base trimestrale l’impronta carbonica di alcuni prodotti e materie prime importati da Paesi extra Ue: nello specifico, il faro è puntato su acciaio, alluminio, cemento, fertilizzanti, idrogeno ed elettricità.
Le multe in caso di inadempienza sono irrisorie, aspetto che peraltro ha sollevato parecchie critiche: al massimo 50 euro per le mancate comunicazioni. Eppure l’avvio del Cbam non passerà inosservato. E non solo perché si tratta di una misura di forte valenza politica, con cui per la prima volta nella storia si cerca di attribuire un prezzo “globale” alle emissioni climalteranti.
Costi calcolati per 27 milioni di euro all’anno
Ci saranno costi extra a carico delle imprese, che la Commissione Ue ha stimato intorno a 27 milioni di euro l’anno, ma che secondo molti analisti sono in realtà difficili da calcolare con precisione in anticipo, anche perché è possibile che si inneschino reazioni a catena, con un impatto esteso anche a settori e soggetti non direttamente coinvolti in questa prima fase di applicazione del Cbam.
Le attività di reporting richieste alle imprese importatrici costituiscono già un primo onere, in termini economici e organizzativi. Ci sono ostacoli da superare anche sul fronte dei controlli, delegati ai singoli Stati Ue, per cui scarseggia il personale. E in prospettiva gli extra costi sono destinati ad aumentare, con possibili effetti sull’inflazione.
Finita la fase sperimentale della Cbam, da gennaio 2026 si comincerà infatti a pagare – sia pure in modo graduale – una sorta di “dazio sulle importazioni inquinanti”, corrispondente al prezzo della CO2 che si paga nel sistema europeo Ets (Emission Trading Scheme), oggi intorno a 80 euro per tonnellata. In parallelo, tra il 2026 e il 2034, verranno progressivamente eliminati i diritti di emissione gratuiti, finora concessi alle imprese Ue per attenuare la perdita di competitività legata agli obblighi ambientali.
I risultati previsti da Bruxelles
Bruxelles è convinta che entro il 2030 la Cbam darà risultati tangibili, non solo provocando un taglio delle emissioni di CO2 nei settori interessati (dell’1% nella Ue e dello 0,4% nel resto del mondo), ma anche riducendo del 29% del cosiddetto “carbon leakage”, che si verifica quando le produzioni più inquinanti tendono a spostarsi in Paesi con leggi ambientali meno severe. Molti analisti tuttavia richiamano l’attenzione anche sul rischio di effetti collaterali.
«Il primo e più ovvio impatto dell’implementazione della Cbam saranno prezzi più alti per i consumatori europei – afferma un report di Ing – Questo non solo perché le importazioni saranno più care, ma anche perché i permessi di emissione gratuiti saranno gradualmente ridotti, facendo salire i costi per i produttori Ue».
Anche le rotte commerciali sono destinate a cambiare, secondo la banca, con potenziali impatti «sia sull’import che sull’export» di molti Paesi: «I produttori con emissioni basse probabilmente aumenteranno la quota di esportazioni nella Ue», mentre chi inquina di più sarà incentivato a spostarsi «su mercati in cui la maggiore intensità carbonica non è penalizzata».
Previsioni che vanno a braccetto con i risultati di un sondaggio tra manager di imprese europee effettuato ad agosto da The Conference Board: l’83% ritiene che la Cbam farà aumentare i prezzi, il 73% pensa che condizionerà la sua scelta dei fornitori (anche se il 58% di questi «non sa ancora» se si rivolgerà maggiormente a produttori europei).
Impatto moderato per la Cina
La Cina, ancora molto dipendente dal carbone, non sembra comunque destinata a subire un grave contraccolpo: la carbon tax si applicherebbe a meno del 2% delle sue esportazioni nella Ue, fa notare la società di consulenza Dezan Shira & Associates, anche se si tratta di un valore piuttosto elevato (circa 6,5 miliardi di euro nel 2022, riferiti «quasi al 99% all’export di alluminio, ferro e acciaio»). Pechino ha anche avviato un proprio sistema di scambio di emissioni di CO2 che – benché limitato alle utilities e ancora poco sviluppato – potrà crescere in futuro, mettendola in condizione di ottenere “sconti” sulla Cbam.
La situazione dell’India
Più scomoda la posizione dell’India, che stima un impatto su esportazioni per oltre 8 miliardi di dollari dal 2026 e non nasconde di avere allo studio un ricorso alla Wto, magari alleandosi con altri Paesi emergenti. Secondo la stampa indiana il governo ha avviato contatti in particolare con Sudafrica e Taiwan, con l’intenzione di far leva sul «principio di responsabilità comune ma differenziata», formalizzato dalla Conferenza Onu sul clima di Rio di Janeiro nel 1992, secondo cui i Paesi industrializzati e quelli in via di sviluppo non dovrebbero essere messi sullo stesso piano quando si tratta di rimediare al cambiamento climatico.
Il commissario Ue all’Economia Paolo Gentiloni ha cercato di rassicurare, ripetendo anche attraverso un editoriale sul Financial Times che il Cbam non è una misura protezionista, ma serve a «proteggere le nostre ambizioni climatiche» e che pertanto è «pienamente compatibile le regole della Wto». Non è detto che le sue parole suonino convincenti per tutti.
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