Carissime donne, questi ritmi sono per voi
Ascoltatore onnivoro, il musicista-produttore Populous ama miscelare mondi lontani, che spaziano dall'elettronica alle suggestioni sudamericane. Ora, nel suo ultimo album intitolato “W”, si circonda di artiste e amiche per rendere omaggio all'universo femminile. Una festa di suoni e battiti che parlano direttamente ai nostri corpi
di Michele Casella
5' di lettura
L'evoluzione della musica di Populous sta tutta nelle copertine dei suoi dischi. Da principio, nel 2002, fu una rivelazione. Erano gli anni in cui l'indietronica rinnovava il suono del pop alternativo e un manipolo di formazioni tedesche indicava la strada da percorrere. L'arrivo di Quipo, il suo debutto – che all'occhio si presentava con forme geometriche e un verde predominante – annullò le distanze fra l'Italia e il resto d'Europa: Andrea Mangia, giovane leccese di belle speranze con un moniker rubato a un videogame di fine anni 80, fu il primo italiano a uscire sull'etichetta di culto Morr Music. Da lì Populous non si è mai fermato, attivandosi come producer, deejay, sound designer e miscelando mondi apparentemente distanti.
Dall'hip-hop bianco di Queue For Love (2005) al songwriting indie di Drawn In Basic (2008), il ragazzo pugliese ha assorbito musica come una spugna e compiuto un nuovo balzo stilistico con Night Safari (2014), il disco pubblicato con lungimiranza dalla Folk Wisdom e aperto sia ai suoni della world che a quelli più ritmati. E se Azulejos (2017) segna l'innamoramento per il Sudamerica e la cumbia, l'ultimo W, da poco uscito, è una festa di colori e di affinità.
Il disco, appunto, sta tutto nella copertina realizzata da Nicola Napoli, digital artist della scena queer berlinese, che raffigura i toni al femminile di «un party utopico dove avremmo fatto follie per essere invitati». Pubblicato in Italia per La Tempesta e nel resto del mondo per Wonderwheel Recordings, W è il disco che Populous dedica alle donne e in cui collabora con artiste come Sobrenadar, Sotomayor, M¥SS KETA, Kenjii, Lucia Manca, Matilde Davoli e tante altre. Un disco in cui l'elasticità del corpo prende il sopravvento sulla linearità cerebrale, dove la cassa in 4/4 sposta le dinamiche verso il dancefloor e dove la freschezza dell'attitudine pop libera definitivamente l'anima più entusiasta di Andrea Mangia.
Partito da una scena che affonda le radici nella ricerca elettroacustica europea, oggi con
«Assolutamente sì! Per una volta non ho voluto perdere troppo tempo pensando al suono, al tipo di ritmi da usare e allo stile da seguire, ma ho pensato prima a me stesso. Erano anni ormai che volevo fare un disco che rispecchiasse al cento per cento Andrea Mangia, non Populous».
Quello che mi ha sempre sorpreso è l'eterogeneità dei tuoi ascolti, che si spingono verso generi e autori tanto distanti stilisticamente quanto inaspettati nella produzione. Cosa guida la tua ricerca sonora oggi? Principalmente ritmo e melodia? Ci sono Paesi che a tuo parere stanno portando reale innovazione e originalità?
«Il punto è proprio questo: volevo che ci fosse dentro l'Andrea che mette house durante i suoi set, quello che ascolta ambient mentre fa yoga, quello che ascolta cumbia mentre cucina, etc… Qualche hanno fa, quando ho cominciato ad approfondire le culture sudamericane, mi si è aperto un mondo! Ho studiato musica a livello accademico e ho sempre avuto un approccio all'ascolto totalmente scevro da preconcetti. Mi rattrista constatare che in Italia ci siano ancora così tanti pregiudizi verso tutto ciò che arriva dal Sud del mondo, musica, culture, esseri umani. Che senso ha giudicare in maniera superficiale cose che a malapena si conoscono? Dall'alto, poi, di quale piedistallo socio-culturale? Oggi uno dei miei punti di riferimento viene dal Porto Rico e si chiama Bad Bunny».
La tua carriera come deejay è particolarmente intensa, e mi pare che abbia portato risultati molto chiari anche nella tua attività di producer. La cassa dritta ti ha definitivamente conquistato?
«Un sacco di persone mi facevano notare che i miei set erano molto più “fisici” dei miei dischi. Non ho mai trovato questa discrepanza un problema. Anzi, la trovavo una cosa divertente e imprevedibile. Ma a un certo punto, quello che suonavo ha cominciato a insinuarsi nelle mie produzioni, dapprima la cumbia digitale nel disco Azulejos e ora la musica da club».
Definisci
«L'idea era quella di fare un disco che avesse un suono sexy, gentile, suadente. Sono tutte cose in qualche modo collegate alla femminilità, che è un universo vastissimo, davvero difficile da catalogare. Ogni uomo ha una sua percentuale di femminilità, che varia da soggetto a soggetto. Tanto più uno affronta questa cosa con onestà, tanto più la può tirare fuori in maniera fluida e naturale. È un disco onesto, questa è la principale differenza coi precedenti».
In
«In fase produttiva mi sono imposto di mixare il disco in modo tale da farlo funzionare bene sia in un club sia durante una sessione d'ascolto più intima. Non ho saturato nessun suono, cercando di preservare quanto più possibile le basse, che ormai sono le mie frequenze predilette, quelle che ti arrivano in pancia e non recano alcun fastidio uditivo. Non riesco più ad ascoltare musica troppo rumorosa perché da ragazzino ne ho ascoltata talmente tanta da avere repulsione».
In che modo hai lavorato con le donne del disco? Che cosa hai cercato di tirar fuori da ciascuna di loro? Come hai operato sui testi?
«Ho spiegato a tutte il concept, lasciando massima libertà dal punto di vista letterario. Il flusso creativo con troppi vincoli secondo me non funziona mai al cento per cento. Alla fine, però, tutte si sono attenute al tema e mi sono ritrovato con un pezzo che parla di sesso (Fuera de mi), uno che parla della dea del mare protettrice delle donne (Flores no mar), l'altro che invita ad essere ciò che si è senza paure e condizionamenti (Soy lo que soy) eccetera eccetera».
Una delle tracce più interessanti è Roma, dove la collaborazione con le conterranee Lucia Manca e Matilde Davoli funziona alla perfezione, restituendo il calore e l'inebriante coinvolgimento ritmico di un Mediterraneo che incontra il mondo. Che effetto fa lavorare dopo tutti questi anni con due amiche e professioniste come loro?
«W me l'ero immaginato pieno di featuring altisonanti. Quando ho capito quanto sarebbe stato difficile contattare queste persone, convincerle a prendere parte al progetto e aver a che fare coi loro management rompiballe, mi sono detto: “Hai un sacco di amiche e amici della comunità queer, collabora con loro se non vuoi perdere l'ultimo briciolo di sanità mentale”. E così ho fatto, ho fottuto solo con la mia gang, come dicono i rapper. Avere Matilde e Lucia assieme è stato naturale come poche cose, sono amiche che vedo spessissimo. Mi sono reso conto che non c'era bisogno di scomodare altra gente, le persone in grado di aiutarmi erano già attorno a me».
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