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Carne bovina, costi alti per gli allevatori e consumi in calo colpiti dall’inflazione

Ismea: gli aumenti dei prezzi non compensano il caro materie prime e le famiglie acquistano i tagli più economici. Scordamaglia (Assocarni): «Sostenere i contratti di filiera per un prodotto di qualità a cui dev’essere garantito il giusto valore»

di Emiliano Sgambato

Gli allevatori in difficoltà non investono in nuovi vitelli

4' di lettura

Una produzione di qualità e sostenibile che permetta di mantenere i prezzi a un livello remunerativo per gli allevatori e rispettare le sempre più stringenti normative ambientali è la sfida che il settore della carne bovina deve affrontare per superare la fase critica attuale.

Da un lato ci sono i costi elevati – dai mangimi all’energia, saliti velocemente e ormai una spina nel fianco da molti mesi – che non sono compensati dagli aumenti dei listini (che pure hanno dato un po’ si sollievo al settore). Dall’altro gli acquisti in Italia, almeno quelli nella grande distribuzione, sono in diminuzione: le causa principale è l’inflazione che costringe le famiglie a a scegliere alternative più economiche, ma se si allarga l’arco temporale in campo ci sono anche la modifica della abitudini dietetiche, la concorrenza dei prodotti proteici a base vegetale, e, all’orizzonte, la minaccia della “carne in provetta” appena sdoganata negli Usa.

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L’ultima fotografia sul comparto l’ha scattata Ismea, secondo cui «le attese degli allevatori per gli affari correnti, pur segnando un leggero miglioramento rispetto ai due precedenti trimestri, restano ampiamente negative». Il costo per la “razione giornaliera” dei vitelloni calcolato dall’Istituto è cresciuto del 30%, così in molti casi gli allevatori «sono stati costretti a modificare la razione alimentare del bestiame, constatando spesso anche minori rese produttive». L’incertezza è tale che ben oltre un terzo delle aziende «non è in grado di valutare l’evolversi della situazione economica dei prossimi 2-3 anni».

«La pressione sulla marginalità, a fronte di costi aumentati drasticamente, è evidente e l’allevatore che non ha certezze su quanto gli verrà riconosciuto, ha timore a investire sui ristalli, perché  vuol dire scommettere su una diminuzione dei costi futuri difficile da prevedere – commenta il presidente di Assocarni Luigi Scordamaglia –. In questo contesto rilanciare la filiera del 100% italiano è una opportunità ma anche una necessità. Le difficoltà ci sono anche in Francia, Paese da cui tradizionalmente arrivano in Italia i “broutard” per essere ingrassati. Abbiamo quindi l’opportunità di rilanciare il settore con i contratti di filiera come quelli già in vigore da anni con Coldiretti e che cresceranno grazie ai progetti del Pnrr». In questo modo gli allevatori potrebbero investire a fronte della certezza di collocamento negli anni a prezzi trasparenti, in grado di coprire i costi di produzione. «È però il Paese che deve credere in questo progetto che è anche sociale di presidio del territorio» dice Scordamaglia, che è anche consigliere delegato di Filiera Italia.

Una brutta notizia su questo fronte arriva da Sardegna e Sicilia (che detengono l’11% del patrimonio bovino) dove è comparsa la Malattia emorragica epizootica, innocua per l’uomo, ma che ha portato alla chiusura dei trasferimenti del bestiame. «L’organizzazione veterinaria pubblica deve essere rafforzata, le autonomie regionali in questo settore generano più danni che vantaggi – denuncia Scordamaglia –. Sarebbe un bene anche per l’export, dato che i Paesi di destinazione vogliono garanzie e procedure uniche per tutto il Paese. Non può essere sempre la filiera bovina a pagarne il prezzo».

A preoccupare è anche la necessità di dover aumentare i prezzi in un momento in cui molti dei consumatori sono in difficoltà economica per la perdita del potere d’acquisto: «un mix che potrebbe rilevarsi catastrofico per un settore da tempo in equilibrio precario» dicono da Ismea. Nei primi dieci mesi del 2022, infatti, le quantità di carne rossa acquistate sono diminuite del 4,5% ma la spesa è in aumento del 4% rispetto al 2021 (e dell’11% rispetto al pre pandemia): questo perchè il prezzo medio per la “fettina” cresciuto dell’8%. Già nel 2021 si era assistito ad una contrazione dei consumi (-2,1%) «ma il livello – nota Isema – restava comunque superiore del 5,4% rispetto al pre covid, ora il livello si riduce anche rispetto a questo periodo dell’1,2%». Inoltre, i prodotti “plant based” «sono arrivati a rappresentare il 4% della torta delle carni totali» con un aumento del 7,9% che porta al 32% la crescita sul 2019.

«A livello mondiale la richiesta di carne è in crescita, in Europa e in Italia la domanda è ancora forte e stabile, al netto di variazioni congiunturali che fanno propendere per scelte più economiche e avvantaggiano le importazioni. Il tutto a fronte di un’offerta sostanzialmente costante – commenta il presidente di Assocarni –. I prodotti plant based non fanno paura perché vanno a scaffale ma non sfondano. La carne in provetta è una grande menzogna basata su miliardi di dollari spesi in comunicazione, che niente ha a che fare con l’agricoltura e con la carne vera. Inoltre a livello di inquinamento produce CO2, più dannoso del metano, e soprattutto costituisce un potenziale grave rischio per la salute, dato che viene prodotta in una coltura di antibiotici e di ormoni vietati da molti anni in zootecnia». «La vera sfida futura che interessa tutta la filiera bovina – conclude Scordamaglia – sarà quella di non abbassare i prezzi anche quando dovessero abbassarsi i costi di produzione. Non si può continuare a “svendere” un prodotto come la carne bovina, che ha quotazioni ferme da vent’anni e a cui va invece riconosciuto il giusto valore. Si potrà magari produrre meno ma di maggior qualità e al giusto prezzo».

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