Decreto taglia prezzi

Caro energia, il doppio scudo per tutelare i clienti dal prelievo sugli extraprofitti

Come funziona il meccanismo con cui il governo ha stabilito un contributo straordinario a carico degli extra-profitti delle aziende del comparto energia

di Celestina Dominelli e Gianni Trovati

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3' di lettura

C’è un doppio scudo nascosto tra le pieghe dell’articolo 37 del decreto taglia-prezzi approvato la scorsa settimana e atteso ad horas dalla pubblicazione in Gazzetta, con cui il governo ha stabilito un contributo straordinario a carico degli extra-profitti delle aziende del comparto energia.

Il comma 8 prevede infatti che, per evitare indebite ripercussioni sui prezzi al consumo, tra il 1° aprile e il 31 dicembre 2022, i potenziali destinatari dovranno comunicare, entro la fine del mese, all’Antitrust il prezzo medio di acquisto e di vendita di elettricità gas naturale e metano, oltre che dei prodotti petroliferi relativi al mese precedente.

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E spetterà poi alla stessa Autorità presieduta da Roberto Rustichelli, in presenza di eventuali incongruenze individuate anche attraverso il supporto delle Fiamme Gialle, intervenire «per l’adozione di provvedimenti di sua competenza». Uno schermo, insomma, a tutela degli utenti per evitare che le aziende possano rivalersi a valle per il prelievo effettuato a monte.

Lo scudo per il Governo

Il meccanismo costituisce, però, uno scudo anche per il governo dal momento che così facendo l’esecutivo punta a sminare uno dei tre fronti che nel 2015 portò la Consulta a dichiarare incostituzionale la Robin tax: il balzello che introduceva un’addizionale sull’Ires (l’imposta sul reddito della società) del 5,5% (poi innalzata al 6,5%) a carico delle imprese operanti nel settore della commercializzazione degli idrocarburi che avessero conseguito ricavi superiori a 25 milioni di euro nel periodo di imposta precedente. Tra le motivazioni della bocciatura figurava infatti anche l’assenza di meccanismi stringenti per verificare possibili traslazioni degli oneri fiscali sui consumatori.

E fu proprio quel “buco”, insieme alla tipologia del contributo (una maggiorazione di aliquota parametrata a tutto il reddito d’impresa e non ai soli “sovra-profitti”) e alla sua durata temporale (la norma divenne strutturale nonostante la sua istituzione fosse legata a una particolare congiuntura), a decretarne la fine a valle del pronunciamento dei giudici delle leggi.

Secondo i quali, la scelta fatta allora, quella cioè di affidare all’Arera il potere di vigilanza «sulla puntuale osservanza del divieto di traslazione», risultava difficilmente attuabile data la difficoltà, scrisse allora la Consulta sulla scia dei rilievi fatti dalla stessa Authority, «di isolare, in un’economia di mercato, la parte di prezzo praticato dovuta a traslazioni dell’imposta».

Il ruolo dell’Antitrust

Da lì, dunque, muove il governo nel congegnare ora una norma, di durata limitata nel tempo e che limiti l’eventuale “estrazione” ai soli extraprofitti. E da quel verdetto discende anche la scelta di chiamare in campo l’Antitrust. Anche questa, però, rischia, come allora, di essere un’arma spuntata. Se anche l’Authority individuasse delle irregolarità, avrebbe infatti le mani legate poiché nell’articolo, osservano gli esperti della materia, mancano poteri sanzionatori ad hoc che l’Antitrust, a legislazione vigente, può attivare solo in presenza di “intese” restrittive della concorrenza e di “abusi di posizione dominante”.

In assenza di queste fattispecie, l’Autorità ha margini di manovra assai ridotti. Senza contare che, per un’efficace attività di vigilanza, servirebbero risorse adeguate dal momento che l’Agcm ha già svariate competenze e un organico di 280 persone. Che, se confrontate con i 900 dipendenti dell’omologa inglese o i 400 di quella tedesca (solo per la parte antitrust, non quella di protezione del consumatore), rischiano di rappresentare un nodo in più per la messa a terra della norma.

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