Caro energia, lo studio Cer: con le rinnovabili rischio aumento costi. A breve non sostituiscono il gas
Secondo il Centro Europa ricerche, il peso della Federazione Russa negli approvvigionamenti di gas naturale dell’Europa e dell’Italia può difficilmente essere ridotto nel breve termine, se non in misura marginale. I suggerimenti di accrescere le importazioni di gas liquido (LNG) da altri paesi, in primis gli Stati Uniti e il Qatar, sembrano poco credibili
di Andrea Carli
I punti chiave
- Il peso del gas difficilmente può essere ridotto in tempi stretti
- I punti deboli delle alternative al gas russo
- Con la crisi Covid transizione energetica sempre più in primo piano
- Le incognite legate alle fonti rinnovabili
- Il caso automotive
- Il nodo geopolitico
- Il passaggio a nuove fonti non implica necessariamente una riduzione dei costi
- È stato un errore cancellare nel 2014 il progetto South Stream
5' di lettura
La crisi energetica che si è acuita con il conflitto in Ucraina richiede di rimettere mano alle strategie di approvvigionamento. L’Italia è il paese che fa maggiore affidamento sul gas naturale, che copre il 41% del fabbisogno nazionale, quota quasi doppia rispetto alla media europea e mondiale. Dal lato dell’offerta, il mercato del gas naturale ha una struttura fortemente concentrata, per ragioni legate alla disponibilità della materia prima, con la Russia che copre da sola oltre un terzo del fabbisogno europeo.
Il peso del gas difficilmente può essere ridotto in tempi stretti
Ma se questo è lo scenario il CER (Centro Europa ricerche) in un rapporto appena pubblicato (titolo: “Crisi o transizione energetica”) avverte: non è detto che puntare su nuove fonti energetiche, a cominciare dalle rinnovabili, porti automaticamente con sé un calo dei costi o un aumento del livello di concorrenza sul mercato. Quindi, l’affondo: «il peso della Federazione Russa negli approvvigionamenti di gas naturale dell’Europa e dell’Italia può difficilmente essere ridotto nel breve termine, se non in misura marginale. I suggerimenti che vengono oggi dati al riguardo, di accrescere le importazioni di gas liquido (LNG) da altri paesi, in primis gli Stati Uniti e il Qatar, sembrano invero poco credibili». La conclusione è che «nel complesso, i dati suggeriscono che l'Unione europea non potrà sostituire la Federazione Russa come principale fornitore di gas naturale nel periodo della transizione energetica».
I punti deboli delle alternative al gas russo
Se si ragiona infatti in termini di alternative alle forniture russe, l’indagine elenca una serie di aspetti che potrebbero avere delle ripercussioni su questo tentativo: a partire dal 2030, la produzione della Norvegia si stima in declino; nel decennio 2009-2019, l’incremento dei consumi di gas dell’Algeria (+5,6% all’anno) è stato maggiore della produzione (+1,3% all’anno) a causa della mancanza di investimenti nel settore; grazie al Corridoio Meridionale del Gas, operativo da dicembre 2020, l’Azerbaijan può fornire circa 16/18 Gm3 annui di gas naturale, di cui 6/8 Gm3 destinati alla Turchia e i restanti a Bulgaria, Grecia e, soprattutto, Italia; le riserve di gas naturale offshore stimate nel Mediterraneo Sud orientale approvvigioneranno anzitutto la crescente domanda dell’Egitto, oltre a contribuire all’indipendenza energetica di Israele. Molto difficile sembra poi la realizzazione del Eastmed, sostenuto dall’Ue ma dai costi proibitivi e avrebbe comunque una capacità di trasporto massima di 10-12 Gm3 annui. Infine, tra i diversi fornitori dell’Ue, il gas naturale liquefatto Usa è quello più costoso.
Con la crisi Covid transizione energetica sempre più in primo piano
Fra gli elementi che caratterizzano lo scenario post Covid - nella speranza di una costante diminuzione dei contagi - è emersa un’accresciuta attenzione verso i temi della sostenibilità ambientale e della transizione energetica. Un’attenzione che è cresciuta ulteriormente con la crisi in Ucraina, e l’esigenza imposta dal conflitto di diversificare le fonti di approvvigionamento. L’obiettivo condiviso a livello mondiale - viene ricordato nel Rapporto CER (Centro Europa ricerche) “Crisi o transizione energetica”, presentato oggi, mercoledì 13 aprile - è di raggiungere la neutralità carbonica (ossia l’equilibrio tra emissioni e assorbimento di CO2) entro il 2050: un periodo relativamente breve, entro il quale i paradigmi produttivi e di consumo dei maggiori paesi dovrebbero segnare una vera e propria torsione, capace di arrestare la tendenza al rialzo delle temperature.
Le incognite legate alle fonti rinnovabili
La strategia di puntare sulla produzione di fonti rinnovabili, ricorda il CER, deve tuttavia fare i conti con il fatto che queste ultime richiedono più materiali di base rispetto alle loro controparti costruite sui combustibili fossili. «Basti pensare - si legge ancora nel rapporto - che in media, un’auto elettrica contiene sei volte più minerali di un’auto convenzionale, mentre un impianto eolico onshore ne richiede nove volte di più di una centrale a gas naturale. La transizione determina pertanto una straordinaria crescita della domanda di materiali di base, la cui offerta è però rigida nel breve-medio periodo».
Il caso automotive
L’indagine porta ad esempio l’automotive: «La sofferenza del settore automobilistico per la scarsità incontrata nella fornitura di semiconduttori nel passaggio dal motore termico a quello elettrico è un chiaro esempio delle strozzature che possono rallentare il cambiamento dei paradigmi produttivi».
Il nodo geopolitico
Non solo: dal lato geopolitico «si deve poi considerare che il numero di paesi che detengono i minerali di base per la transizione è ancora più ristretto del numero dei paesi produttori di fonti fossili e questo significherebbe che si sta andando incontro a un ulteriore aumento del grado di oligopolio dei mercati energetici. Con l’ulteriore preoccupazione che alcuni dei maggiori detentori di materie prime per la transizione sono paesi a basso grado di sviluppo o comunque ad alta instabilità politica,facilmente passibili di subire l’influenza di alcune grandi potenze (ad esempio, il 70% della produzione e il 50% delle riserve di cobalto si trova in Congo, mentre il Cile e l’Indonesia hanno una preminenza, rispettivamente, su litio e rame)».
Il passaggio a nuove fonti non implica necessariamente una riduzione dei costi
Di qui, la conclusione, espressa nell’indagine: «Questo insieme di fattori evidenzia come il passaggio a nuove fonti energetiche non comporti necessariamente né una riduzione di costi, né un aumento del grado di concorrenza sul mercato e come inoltre l’abbassamento dei livelli di inquinamento potrebbe rivelare intensità inferiore a quella al momento associata agli obiettivi di ricomposizione del paniere energetico mondiale».
È stato un errore cancellare nel 2014 il progetto South Stream
«Con ogni probabilità - si legge nel rapporto - la crisi del gas naturale in Europa non avrebbe assunto tali proporzioni se a dicembre 2014 non fosse stato cancellato il progetto South Stream, fortemente rispondente agli interessi dell’Italia, che attraverso i fondali del Mar Nero, avrebbe dovuto rifornire l’Europa dal suo versante Centromeridionale con 63 Gm3, coprendo il 16,5% circa del fabbisogno annuo. Un’opera - continua ancora il documento - che avrebbe conseguito il fondamentale obiettivo di rafforzare la diversificazione delle vie di transito del gas naturale, ma che ha incontrato l'ostilità degli Stati Uniti e insormontabili ostacoli posti dalla Commissione europea col Terzo Pacchetto Energia».
Se fosse stato costruito il South Stream, osserva il CER, Nord Stream II non avrebbe mai visto la luce. «L'Unione Energetica Europea è dunque giunta ad una configurazione infrastrutturale in cui la Germania è l'unico grande hub europeo per l'importazione del gas russo, a discapito dell'Italia, il cui ruolo di hub Meridionale sarebbe comunque stato complementare e non in antitesi con quello tedesco».
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