Viaggio nell’anima dell’Europa / 1

Casa Erasmo, col bus 49 verso il cuore della nostra identità

di Carlo Ossola

l’interno di una delle sale della Casa Museo di Erasmo ad Anderlecht: quella destinata alle mostre temporanee. Qui è un’installazione dell’artista Raphaëlle Duquesnoy

5' di lettura

Che cosa può dire di sé oggi l’Europa, che valga a riconoscersi, a farla riconoscere? Essa non ha voluto darsi una carta di identità, e sta smarrendo persino il fatto di essere da millenni unita per il lento sovrapporsi e stratificarsi della sua più profonda natura: essere sempre il “qui dell’altrove”.

Si tratta – nella geografia di un continente tracciata ormai dalle rotte low cost– di ritrovare invece una sorta di “cartografia storica” della propria identità, già definita, sin dal IV secolo, dall’Ordo nobilium urbium di Ausonio. Il viaggio che iniziamo evoca 16 luoghi emblematici d’Europa: nodi che, toccati dall’agopuntura della coscienza storica, rilasciano il dolore di tanti scontri e la sapienza di tanti saperi.

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Non metropoli (già cosmopolite per natura e insieme “non-luoghi” segnati dagli stessi ingorghi e periferie senza volto), non capitali; ma “luoghi comuni” di un quotidiano da ritrovare, nel silenzio che dischiude comprensione. Luoghi di tutti, di un’Europa – come nell’elogio di Roma dettato da Elio Aristide – «il cui centro è dappertutto e la periferia da nessuna parte».

Scendo dalla linea 49, alla fermata Beauté, è un pomeriggio frizzante di aprile, 2015; percorro la rue du Formanoir, attraverso la rue Érasme, e arrivo nell’improvviso silenzio del Béguinage d’Anderlecht; costruito nel 1252 per otto beghine soltanto, è il più piccolo e il più raccolto del Belgio; minuscolo nelle finestrelle, nelle porticine, assorbe i passi, i gesti, che dovettero essere quasi invisibili nei secoli. È il miglior percorso per accedere alla «Maison d’Érasme», una bella dimora di fine XV secolo costruita dall’umanista Pierre Wichmans, ove Erasmo soggiornò per cinque mesi dal maggio 1521.

Il grande propugnatore della pace vi arriva da Lovanio, ove le tensioni religiose sono minacciose, dopo la scomunica (1520) di Martin Lutero. Erasmo vuole che il credere non sia contendere e si ritira; presso l’amico trova pace; scrive molte lettere agli umanisti d’Europa in quei mesi. In una lunga epistola indirizzata più tardi (1523) dalla Svizzera a Marc Laurinus a Bruges, Erasmo racconta le sue giornate ad Anderlecht: evoca Girolamo Aleandro, corrisponde con Mercurino Gattinara, il gran cancelliere del re cattolico Carlo V, pranza con il vescovo, passeggia.

Oggi c’è un museo con opere rare dell’umanista, quadri del tempo, giardini per meditare. La conversazione della serata è sulla pace, sulla coscienza erasmiana che l’uomo è un animale senza artigli, zanne, becchi, nessun organo fornito dalla natura per offendere: è un animale nudo, che dovrebbe seguire l’annuncio ai pastori alla nascita del Cristo: «Gloria a Dio nei cieli, e pace in terra agli uomini»; e invece guerreggia, offende; i cristiani si uccidono gli uni gli altri. La pace ch’egli proclama è senza frontiere: non ci sono infedeli, ma uomini; così ha scritto nel Dulce bellum inexpertis, e nel Lamento della pace. Lo ricorderà Kant che, propugnando la Pace perpetua (1795), osservava che, a rigore, “perpetua” è un aggettivo di troppo, perché la pace è incondizionata, è un ordine celeste dato agli uomini.

Oggi l’Europa gode da 70 anni di pace (tranne la triste guerra del Kosovo) e dovrebbe ricordare – lo fa con le borse di studio e di scambio Erasmus – uno dei suoi padri più veri, dei difensori instancabili della pace.

Adempiuto il ricordo degli Adagia, si sale nel grenier restaurato ove ci accoglie la squisita direttrice Ann Arend e la sua garbata équipe di collaboratrici: sembra di rivivere i «Colloquia» di Erasmo; cenando e cedendo all’otium della serata, si evoca quale dovrebbe essere il riposo che non sia dispersione, né mero svago o vacanza che snerva e neppure passaggio da un’occupazione pubblica a un’altra senza tregua, nelle nostre giornate governate dall’affanno che rode gli affetti. E si richiama, dal De oratore (II, 6) di Cicerone agli stessi Adagia, quella forma di «remissione dell’animo» che era – anche per i grandi come Scipione – il «raccogliere conchiglie» sulla spiaggia, così come gli uccelli, quando hanno finito le fatiche del costruire il nido e del cercar cibo per i piccoli, si distendono ad ali spiegate, per «libere volitare», volteggiare disegnando l’aria; e veniva – per contiguità – in mente La lettura di un’onda del signor Palomar di Calvino. La pace distende il volo della mente: quella sembrò essere la conclusione, venuta mezzanotte.

Ridiscendo in una strada ormai deserta; del 49 trovo solo il cartello del percorso: Aumale, Beauté, Cimetière de Molenbeek, poche fermate. Sette mesi dopo (13 novembre 2015) l’assalto e il massacro al Bataclan a Parigi: la maggior parte di quel nucleo di terroristi (Brahim Abdeslam, Chakib Akrouh, Mohamed Abrini) vengono proprio da Molenbeek, come Salah Abdeslam, che dopo mesi di latitanza verrà arrestato a Molenbeek-Saint-Jean il 18 marzo 2016.

Tra quella Molenbeek, di esclusione e terrore, e la «Maison d’Érasme» di Anderlecht ci sono dunque poche fermate del bus 49; due chilometri e mezzo, un quarto d’ora a piedi. Lì è tutto il nostro presente: siamo tutti sulla linea 49; certo sapere della direzione è importante: ed oggi ciò che viene suggerito, diffuso e urlato – poiché la paura “rende” alle elezioni politiche – è che stiamo rincasando verso le Molenbeek di tutta Europa; una o due fermate ancora e ci saremo dentro.

Ma la storia, questa storia della capitale della Comunità Europea (poiché Anderlecht come Molenbeek sono parte del grande agglomerato comunale di Bruxelles), insegna che si può anche uscire prendendo il 49 dalla parte opposta: scegliere di andare verso la casa di Erasmo, ad Anderlecht; andarci per leggere, per passeggiare nel «giardino filosofico» di Benoît Fondu, inaugurato nel 2000; per conversare con Sophie Cornet e Céline Bultreys che prolungano sorridendo la voce dei libri, per scegliere la misura raccolta e dimessa di una camera di beghinaggio; e ritrovarci come siamo: indigenti.

A sera, di nuovo si torna sul 49: Erasmo ci accompagnerebbe dicendo, con uno dei suoi Adagia: «Non curat numerum lupus» (n° 1399) e chiosando: «Il lupo non teme di divorare neanche pecore numerate».

La differenza tra l’andata e il ritorno quotidiano, in noi, dal male alla pace e viceversa, è solo quella: il male proclama «il mio nome è legione» e vuole legioni di vittime; il giusto non cerca il gregge ma la pecorella smarrita; poiché ognuno di noi è numerato. E oggi non c’è neanche da andare in cerca, un mondo d’esilio ci viene incontro: ogni tram della nostra vita è una linea 49; sta a noi scegliere la direzione, la legione o l’abbandonato; se portare nella nostra Molenbeek un po’ della pace respirata nelle case della memoria che abbiamo in noi, oppure se riempirle di ciò che ci dicono delle domestiche Molenbeek. E se, sopraffatti, nulla si avesse da dare, nulla da proporre, Erasmo ancora ci viene incontro: se non hai patrimoni e non sei istruito, non importa: «La pietà è sufficiente alla salvezza» (Adagia, 1401).

Buon viaggio dunque!

Carlo Ossola, insigne italianista e da anni nostro collaboratore, è docente al Collége de France (Chaire de Littératures modernes de l’Europe néolatine), è socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei ed è appena stato nominato membro dell’American Academy of Arts and Sciences. Il suo più recente libro è «Ungaretti, poeta» (Marsilio, Venezia 2016).

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