Caso Andy Rubin, il problema della Silicon Valley con le donne
di Marco Valsania
4' di lettura
NEW YORK - Nella Silicon Valley era nota tra le aziende dove semmai le donne avevano più spazio e lasciavano il segno. A Google - poi Alphabet - in fondo avevano trovato trampolini di lancio dirigenti del calibro di Sheryl Sandberg e Marissa Mayer. Tuttora vanta una squadra di management femminile al 46% tra cui il direttore finanziario Ruth Porat. Ma la scoperta nei giorni scorsi che il colosso dei motori di ricerca e della pubblicità digitale ha taciuto, protetto e remunerato con generose buonuscite top executive uomini credibilmente accusati di molestie sessuali, abusi o rapporti inappropriati con subordinati ha strappato più che mai il velo di romanticismo attorno alla cultura dell'innovazione nella Valle del Silicio.
Per gettar luce piuttosto su lati oscuri e reconditi, quelli della violenza e discriminazione sessuale. Segno di quanta strada l'intero settore abbia ancora da compiere per colmare l'abisso tra l'immagine progressista e emancipatrice della tecnologia che coltiva e una realtà segnata da predominio maschile, autoritarismo e diritti altrui troppo spesso ignorati o calpestati. Una sorta di “Brotopia”, di esclusivo club utopico di fratelli tra loro complici.
Google
Il caso rivelatore riguarda Andy Rubin, nientemeno che l'inventore di Android. Quando se ne è andato nel 2014, con trattamento da eroe visto il successo del suo sistema operativo per i gadget mobili, è stato insignito di un pacchetto a sua volta di proporzioni epiche, 90 milioni di dollari. Peccato che allora Google stessa avesse concluso, al termine di un'inchiesta interna, che le accuse mosse nei suoi confronti fossero credibili. E peccato che Rubin non fosse esattamente in miseria: vanta un patrimonio stimato in 350 milioni. Lo shock davanti alla notizia, rivelata dal New York Times, ha scosso gli stessi ranghi dell'azienda: all'ultimo incontro settimanale dello staff, la richiesta di chiarimenti più gettonata posta ai vertici è stata senza mezze misure ed è suonata come un j'accuse: «Numerose azioni aziendali indicano che la protezione di potenti personaggi responsabili di abusi è letteralmente e figurativamente di maggior valore per l'azienda rispetti alla salute delle loro vittime».
Una cultura aziendale permissiva - soprattutto a favore dei maschi e dei vertici - aveva sicuramente creato un clima favorevole agli abusi. Ma più in dettaglio nella vicenda in questione una donna, con cui Rubin aveva avuto una relazione extraconiugale, lo accusava di molestie e violenza in una stanza d'albergo e le indagini interne avevano confermato l'episodio. Vista la posizione di Rubin, l'azienda scelse però il silenzio e l'insabbiamento, pagando Rubin a rate mensili medie di due milioni - l'ultima il mese prossimo - per uscire gentilmente e con tutti gli onori di scena. Altri due dirigenti furono protetti mettendo tutto a tacere: uno ricevette a sua volta una liquidazione pluri-milionaria; l'altro rimase in un incarico riccamente compensato a Google. Il primo, Amit Singhal, senior vice direttore nel motore di ricerca, fu accusato di aggressione a una dipendente. Dimessosi con paracadute d'oro ufficialmente per ragioni personali, finì a lavorare per un'altra società che cominciava a sua volta a essere scossa da scandali di abusi, Uber, dalla quale venne estromesso un anno dopo all'avvio di tentativi di repulisti etici del gruppo di trasporto alternativo. Tuttora capo dell'Ufficio legale di Google è invece David Drummond, che ebbe una impropria relazione extraconiugale e un figlio con una assistente del proprio ufficio, la quale fu poi allontanata senza tanti complimenti e lascio' l'azienda. Google ha infine ammesso di aver licenziato, seppur senza elargire premi e elogi negli ultimi due anni, altri 48 dipendenti di rango inferiore per sospetti di abusi.
I finanzieri
Google è forse l'ultimo e tra i più eclatanti, ma non è il primo caso degno di mobilitare il movimento “Metoo” a scuotere la Valle. Due influenti investitori specializzati in hi-tech sono stati travolti l'anno scorso da accuse di violenza sessuale: Dave McClure dell'incubatore 500 Startups (avance indesiderate a diverse donne, dipendenti e candidate a assunzioni) e Justin Caldbeck di Binary Capital (accusato da sei donne). I due hanno a posteriori offerto messaggi di scuse per il loro comportamento. Una delle primissime denunce del “problema sessuale” era nata proprio in questo ambito: Ellen Pao, partner della celebre societa' di venture capital Kleiner Perkins, nel 2012 presentò ricorso per discriminazione, perdendo la battaglia in tribunale ma accendendo i riflettori nazionali sul problema. Altri protagonisti scottati da simili scandali comprendono Steve Juvertson, considerato un re Mida delle scommesse tecnologiche, che lascio' la Draper Fischer Juvertson all'emergere di denunce su suoi comportamenti inappropriati con piu' d'una dipendente.
Uber
Fu un ex ingegnere, Susan Fowler, a far esplodere il caso per la società di trasporto alternativo. Denuncio', inizialmente con un messaggio su un blog, discriminazione e molestie sessuali da parte di suoi superiori. E i tentativi dell'azienda di zittirla, lasciando cadere le sue proteste e minacciando di licenziarla se insisteva mentre prendeva le difese del responsabile di questi abusi. È da qui che si è incrinato seriamente il mito di Uber. Una spirale di polemiche sulla cultura ultra-aggressiva e violenta incoraggiata all'interno dell'azienda, a cominciare dal suo fondatore e chief executive Travis Kalanick, porto' alla fine alle dimissioni dello stesso Ceo nel giugno del 2017. Kalanick, fu reso noto, era al corrente delle persistenti accuse di violenze sessuali in azienda e non aveva mai preso adeguati provvedimenti. Emersero inoltre video del chief executive che insultava gli autisti delle vetture e testimonianze su uscite in gruppo di executive per recarsi in locali di servizi di escort e organizzare avventure sessuali durante viaggi e ritrovi.
I numeri
Dietro al pervasivo clima di abusi e discriminazioni, ci sono cifre nude e crude che spiegano molto degli equilibri - e squilibri - di potere nel mondo dell'hi-tech. Società lanciate da donne tuttora ricevono soltanto il 2% dei fondi mobilitati dal venture capital. Non va molto meglio quando vengono misurate le opportunita' di lavoro, da Google a Facebook, da Netflix a Twitter e alla parte tech di Amazon: solo il 25% dei dipendenti a Silicon Valley è donna, molto meno del circa 50% spesso messo sotto accusa come inadeguato nella “maschile” Wall Street.
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