Certificazione di parità, un’opportunità per le aziende
Il nuovo Codice degli appalti rischia di annacquare l’efficacia della misura entrata in vigore nel luglio 2022
di Simonetta Candela*
I punti chiave
4' di lettura
Nelle ultime settimane si è assistito a un inteso dibattito mediatico sull’operazione di “watering-down” (di “annacquamento”) degli impegni generazionali e di genere, a cominciare dalla Certificazione di parità di genere, nell’ambito dello schema del Codice Appalti portato all’attenzione delle Commissioni parlamentari.
Come noto, le novità più rilevanti sono quelle legate alla mera facoltà (non più obbligo) per le stazioni appaltanti di inserire nei bandi di gara meccanismi per promuovere la parità di genere, equiparandola alle altre tutelate per legge (es: giovanile, ecc.), con una riduzione del 10% dello sconto sulle garanzie da presentare per chi avesse conseguito la Certificazione di parità di genere. Il riferimento normativo alla Certificazione di parità di genere così sparisce dal Codice Appalti e viene ridotto ad una semplice misura facoltativa ricompresa in un mero allegato.
Il nuovo Codice degli appalti
Eppure, solo pochi mesi fa, il DL 30 aprile 2022 n. 36 (convertito con modifiche nella L. 29 giugno 2022 n. 79) aveva espressamente previsto il rafforzamento del sistema di certificazione della parità di genere, apportando al Codice Appalti Pubblici (D.Lgs. n. 50/2016) una serie di importanti modifiche tra cui «l’essere in possesso di certificazione della parità di genere» nell’ambito delle garanzie per la partecipazione alla procedura (art. 93, comma 7) e «l’adozione di politiche tese al raggiungimento della parità di genere comprovata dal possesso di certificazione della parità di genere» con riferimento ai criteri di aggiudicazione dell’appalto (art. 95, comma 13).
Alcuni esponenti del Governo hanno giustificato tale approccio - apertamente in contrasto con i principi della Missione 5 del PNRR e con gli obiettivi di «crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva» posti dalla Direttiva 24/2014/UE in materia di appalti pubblici - con la volontà di premiare le aziende senza costringerle, penalizzarle o obbligarle a più burocrazia e a più costi.
Se davvero questa fosse la ragione che ha “ispirato” la decisione di far sparire dallo schema del Codice Appalti ogni riferimento normativo alla Certificazione della parità di genere, facendole perdere rilevanza anche premiale, sarebbe sufficiente osservare che la Certificazione di parità di genere è già di per sé una misura facoltativa.
Perchè fare la Certificazione di Parità
La Certificazione di Parità di genere è una misura rivolta a qualsiasi impresa, indipendentemente dalle relative dimensioni, ma priva di valenza prescrittiva: nessuna azienda, grande o piccola che sia, è tenuta ad intraprendere il percorso della Certificazione di parità di Genere, se non per propria autonoma scelta ed iniziativa. Dunque, non c’è alcuna ragione per volerne limitare la portata in funzione di una proclamata riduzione dei vincoli burocratici a favore delle imprese: le imprese che vorranno certificarsi lo potranno fare e le imprese che non lo vorranno saranno parimenti libere di non farlo; alle prime, tuttavia, sarà obbligatoriamente assegnato un punteggio premiale adeguato al valore che questa certificazione rappresenta in termini di inclusione e parità sociale.
Peraltro, non hanno ragione di esistere le perplessità e resistenze di chi teme che la Certificazione di Parità di genere possa agevolare nei bandi pubblici le grandi aziende, che hanno a disposizione più mezzi economici e risorse da destinare a tale misura, a discapito di quelle più piccole. Questo timore – per quanto comunque infondato, dato il criterio di proporzionalità previsto nell’applicazione dei KPI delle Linee Guida in base a dimensioni occupazionali e settore di appartenenza dell’impresa – è stato ulteriormente scongiurato dal recente accordo siglato tra Unioncamere e il Dipartimento per le Pari opportunità che prevede specificatamente delle azioni a favore delle Pmi (tra 10 e 49 dipendenti) e delle micro-imprese (con meno di 9 dipendenti).
Da una parte c'è la formazione di un elenco di organismi di certificazione accreditati che aderiscono alle misure di agevolazione alla certificazione delle Pmi previste del PNRR, in relazione ai quali è stato pubblicato un avviso il 14 febbraio scorso; dall’altro il PNRR ha previsto per questa misura una dotazione finanziaria complessiva di 10 milioni di euro, di cui 5,5 milioni per i costi di certificazione, per un massimo di Euro 12.500 ad impresa ed altri 2.5 milioni per i servizi di assistenza tecnica e accompagnamento, per un massimo di Euro 2.500 ad impresa.
Un’opportunità non un vincolo
Premesso, dunque, che la Certificazione di parità di genere rappresenta solo un’opportunità e non un vincolo, la misura maggiormente osteggiata rimane quella che prevede, in caso di aggiudicazione dell’appalto, l’obbligo di riservare una quota pari ad almeno il 30% all’assunzione di giovani (36° anno di età) e donne per l’esecuzione del contratto o lo svolgimento delle attività connesse (art. 47, comma 4, del c.d. Decreto Semplificazioni).
Occorre notare che, anche in questo caso, non si tratta di un obbligo assoluto: la quota è comunque derogabile dalla stazione appaltante attraverso espressa e specifica motivazione. Si pensi, ad esempio, al caso di appalti in settori a bassa diversità di genere - es. edilizia - oppure alla presenza di clausole sociali di riassorbimento occupazionale, che prevedano obblighi in favore dei lavoratori già impegnati nell'esecuzione del servizio con il gestore uscente; oppure ancora, per quanto riguarda l’occupazione giovanile, al caso in cui il contratto richieda l'assunzione di soggetti con una rilevante esperienza lavorativa pregressa.
Dunque, neppure in questo caso siamo di fronte al tanto temuto vincolo burocratico, essendo una disposizione che consente apposite deroghe in funzione di specifiche situazioni contingenti.
Accomunare tutte le previsioni di legge volte a favorire le opportunità di genere e generazionali derubricandole da obbligo a semplice facoltà, appare una scelta miope ed è un evidente passo indietro per il raggiungimento di obiettivi indispensabili per il progresso e la competitività del nostro Paese, su cui tante voci si sono sollevate in questi giorni. È una decisione che deve essere necessariamente riconsiderata senza infingimenti e senza inutili scuse: occorre mantenere ferma l’obbligatorietà delle previsioni di genere e occupazionali nell’ambito del Codice Appalti (prevedendo un periodo transitorio e le necessarie ipotesi di deroga), lasciando immutato l’obbligo premiale e le relative percentuali per tutte le aziende che si impegnino nel raggiungimento di una effettiva uguaglianza attraverso la certificazione di parità.
*Avvocati Giuslavoristi Italiani-AGI
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