Cinema

Cézanne sapeva tutto del cinema

di Andrea Martini

4' di lettura

Si può nutrire scarso entusiasmo per il cinema di Wenders o magari solo essere sconsolati dal confronto tra i suoi primi film Alice nelle città, Falso movimento, Nel corso del tempo - una trilogia che divenne riferimento collettivo di una intera generazione europea, permettendo al regista di Dusseldorf di inserirsi tra gli accenti dolenti del melodramma di Fassbinder e la follia barocca di Herzog - e le ultime estenuate prove Non bussare alla mia porta, Palermo shooting, Ritorno alla vita, dove si rincorrono in modo infertile temi e forme epigone di pellicole precedenti. È tuttavia impossibile non riconoscere in Wenders uno degli interpreti più acuti e appassionati di fenomeni culturali legati a pittura, moda, fotografia, danza, tutti annodati all’atto del vedere, figura essenziale della sua poetica più volte riverberata nella visionarietà dei suoi film. Non è un caso se la seconda vita del regista sorge proprio con i documentari che dopo Ozu (Tokyo-ga) hanno indagato con sensibilità lirica ma anche con lucidità di pensiero, gli universi di Yohji Yamamoto (Appunti di viaggio su moda e città), Company Secundo (Buena vista social club), Pina Bausch (Pina), Sebastião Salgado (Il sale della terra).

Da tempo alla creazione cinematografica Wenders ha affiancato la scrittura. Né critica né romanzesca ma piuttosto affabulatoria ed empatica, idonea a rendere il lettore partecipe di passioni, talvolta smodate, per artisti che hanno influenzato la sua espressività, o solo acceso la sua curiosità, ma inevitabilmente prossimi al suo modo d’intendere la stupefacenza del visibile. Ai precedenti volumi si affianca oggi I pixel di Cézanne - pubblicato inizialmente in Germania nel 2005 per i settant’anni del regista - che ad alcuni testi già editi affianca il frutto di più recenti occasioni: prefazioni, commemorazioni, conferenze, laudatio e introduzioni a cataloghi. Materiali che formano veri e propri taccuini capaci, grazie a raffinati strumenti d’indagine, di parlarci con esemplare chiarezza di processi creativi altrui e di gettare luce sui propri. Non si creda comunque che l’autore rinunzi nemmeno sulla pagina a ricorrere all’immagine. Egli procede per “blocchi di pensieri visibili”: grazie alla disposizione poetica del testo rigidamente allineato a sinistra e in grado di rendere libero il ritmo della frase, prende vita un movimento di idee graficamente percepibili pronto ad avanzare in modo simile al flusso di inquadrature.

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Nel brano su La Montaigne Sainte-Victoire scelto per chiudere il volume suggellandolo, Wenders non ha paura di parafrasare Picasso - che ebbe a dire come il primo segno o la prima pennellata di Cézanne fossero già un capolavoro - ma poi s’interroga su come sia possibile che leggerezza dell’acquarello e profondità di sguardo si combinino sì mirabilmente. Forse perché il pittore «dipinge l’atto stesso del vedere la montagna» dà così avvio al gesto artistico come lo s’intende nella modernità. Di tutt’altro tenore è il rapporto con altri pittori. A Edward Hopper, che il regista scelse come nume tutelare fin dalla sua giovinezza, sono riservate pagine esemplari in grado di illustrare il progressivo lavorio di riduzione all’essenziale e di condensazione condotta all’estremo («quadri come pietre») necessario per mettere in scena «persone solitarie in stanze deserte». Immagini che ritroveremo nel cinema di Wenders - che da Hopper fu talmente influenzato da pensare di poter realizzare L’amico americano senza movimenti di macchina - anche se poi i quadri di Andrew Wyeth, il pittore dell’America contadina, appaiono altrettanto significativi per essere stati pensati fuori del tempo in un’accezione che ricorda uno dei punti fermi della narrazione wendersiana.

Con ancora maggiore naturalezza ma anche con grande umiltà, quasi volesse fare dimenticare la sua dimestichezza con la tecnica, il regista di Paris-Texas scrive di cinema. Se le pagine dedicate a Bergman e Antonioni (il solo ad aver colto, in Blow up, la morte al lavoro) possono sembrare meno incisive, il lettore si lascerà facilmente sollecitare dalla retorica pedagogica ma perspicace allorché Wenders spiega come i western di Anthony Mann, con il superbo uso dello spazio e la disposizione dei personaggi che ricorda i dipinti fiamminghi, lo avessero convinto a trasformarsi da studente di pittura dei Beaux-arts in aspirante regista, frequentatore assiduo della Cinémathèque, o quando parlando di Lo specchio della vita rilegge a suo modo Douglas Sirk, non più maestro delle spirali melodrammatiche ma interprete e-contrario del sogno americano degenerato nei suoi stessi valori e costumi.

Ci si deve meravigliare se l’estensione del visibile offerta dal 3D è collegata in Wenders con l’esperienza del teatrodanza di Pina Bausch? Non si tratta tanto di rileggere il rapporto tra tempo e mobilità quanto nel ritrovare nel movimento (Bewegung) l’emozione autentica in grado di respingere gli artificial substitutes for imitations of emotions del nostro quotidiano. Se Pina ha la facoltà di scandagliare lo spazio tra le persone per misurare la loro vicinanza e la loro solitudine, Yohji Yamamoto incorpora nella trama, nei colori e nel taglio degli abiti bellezza e tradizione, valore e significato che contagiano chi li indossa. Il rapporto d’amicizia con il couturier giapponese viene raccontato con accenti di intima affinità che sfiorano la vertigine del sublime quando si dà conto del senso di sicurezza provato a distanza di tempo dal regista nell’infilarsi un vestito creato per William Hurt, protagonista di Fino alla fine del mondo.

Dopo il cinema, la fotografia è sempre stata l’espressione praticata e indagata da Wenders con maggior ardimento - lo ricorda anche un volume, Una volta, opportunamente ripubblicato dal medesimo editore. Lo confermano le pagine dedicate a Peter Lindberg trasformato, non senza qualche ragione, da fotografo di moda di avvenenti mannequin in stregone capace di metamorfizzare bellissime dee da copertina in esseri umani senza sottrarre loro l’aura.

La ventina di ritratti di I pixel di Cézanne custodiscono i segni della partecipazione emotiva per altrui prove d’artista. Possono più o meno convincere ma è impossibile non essere colpiti da ciò che li accomuna: l’incrollabile fiducia dell’autore nell’arte come mezzo per penetrare la realtà.

Wim Wenders, I pixel di Cézanne e altri sguardi su artisti , a cura di Annette Reschke, Contrasto, Roma, pagg. 224, € 24,90

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