Che cosa ci fa la Guyana con tutto questo petrolio?
Il crollo del prezzo del petrolio a causa della pandemia potrebbe stroncare i sogni di ricchezza della Guyana, uno degli Stati più poveri del Sudamerica, che ha da poco trovato l'Oro nero. Il tema è stato al centro delle recenti elezioni, mentre ExxonMobil, che ha i diritti di sfruttamento, nega che la crisi avrà conseguenze sulle attività (almeno per ora)
di Marco Dell'Aguzzo
3' di lettura
Sono davvero tempi straordinari se un barile di petrolio è arrivato a costare meno di zero. A causa della pandemia che ne ha abbattuto la domanda, i produttori non sanno più dove mettere le scorte invendute e sono disposti a pagare purché qualcuno se le porti via. Non era questo lo scenario che si immaginava la Guyana, uno degli Stati più poveri del Sudamerica, che ha da poco trovato l'Oro nero. La scoperta, al largo delle coste, di un'enorme riserva – stimata in 8 miliardi di barili – dovrebbe catapultare dal nulla la nazione nella lista dei principali produttori di greggio. Ma se il valore del petrolio resterà basso a lungo, la crisi del Coronavirus potrebbe stroncare sul nascere i sogni di ricchezza del Paese.
Secondo la Banca mondiale, nel 2020 il Pil dell'America Latina si contrarrà del 4,6 per cento. Tra le pochissime e vistose eccezioni c'è proprio la Guyana, che al contrario crescerà di un sorprendente 52 per cento. Le previsioni dell'istituto invitano a contenere l'entusiasmo per gli anni a venire. Ma l'estasi dell'olio domina comunque la vita pubblica della Guyana e ci si immagina che il greggio rivoluzionerà l'economia del Paese – che si basa sullo zucchero e sulle miniere di bauxite – creando nuove opportunità di lavoro. Qualcosa sta già cambiando. Sulle strade sterrate è stato versato l'asfalto, il prezzo delle case è salito e c'è anche chi, di getto, ha aperto un'attività scommettendo sul boom dei consumi. L'ottimismo però non ha contagiato tutti. Gli ex lavoratori dell'industria dello zucchero non credono che il petrolio – contenuto in depositi lontani dalla terraferma – migliorerà granché la loro condizione.
Il grande tema delle entrate petrolifere, e soprattutto di quale uso farne, è stato al centro delle elezioni dello scorso 2 marzo. Mentre scriviamo, non è ancora stato annunciato un vincitore: la Corte suprema ha ordinato il riconteggio dei voti perché si sospettano brogli in favore del presidente uscente David Granger. L'opposizione ha minacciato di boicottare il Parlamento. Le tensioni, anche sociali, sono forti perché la politica guyanese riprende le divisioni etniche: gli abitanti di discendenza africana appoggiano il Congresso nazionale del popolo (Pnc), al governo con Granger; quelli di discendenza indiana – la maggioranza – votano in blocco per il Partito progressista popolare (Ppp). Portare gli indigeni dalla propria parte risulta determinante per la vittoria.
In un quadro politico così polarizzato, ogni partito teme che l'altro userà i soldi del petrolio per favorire il proprio elettorato ed escludere il resto. Il Pnc vuole investire nella riqualificazione degli agricoltori in impiegati pubblici, mentre il Ppp intende finanziare il settore dello zucchero. Un governo che dovesse salire al potere tra sospetti di frode e con una bassa legittimazione potrebbe essere ancora più incentivato a usare quel denaro per comprarsi il consenso. La storia insegna che grandi quantità di greggio, quando incontrano istituzioni deboli, rappresentano spesso una maledizione: invece che generare benessere tra la società, è più facile che alimentino la corruzione e il declino.
La compagnia americana ExxonMobil, che si è aggiudicata il contratto per lo sfruttamento delle riserve guyanesi, dice che il crollo dei prezzi non ha avuto conseguenze sulle attività. Per ora. Ma un ripensamento diventerebbe necessario se la domanda di petrolio si mantenesse fiacca, e soprattutto se lo spazio di stoccaggio dovesse esaurirsi. La Guyana non ha un passato di produzione petrolifera alle spalle, e nemmeno le infrastrutture per affrontare questa crisi.
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