Interventi

Chi ha vinto e chi ha perso nella rielezione di Mattarella

di Giovanna De Minico

(Guglielmo Mangiapane/Pool via AP)

3' di lettura

Ha perso perché il sistema di aggregazione dei partiti in coalizioni, coacervi informi, disomogenei politicamente e come tali rissosi, ha ultimato la sua corsa. I partiti di ciascun contenitore si sono sentiti assolti da ogni vincolo, sciolti da qualsiasi promessa. Questo spiega il moto ondivago dei partner di una medesima coalizione: l'uno è andato nella direzione opposta all'altro. La Lega lanciava la Casellati dietro la finta carta della candidatura femminile per un mero utile di partito, mentre Forza Italia la sosteneva con la fedeltà di un infedele. Sul fronte opposto il PD si nascondeva dietro rose di nomi mai svelate, lì dove il M5S viveva un irriducibile caos correntizio tra il voto a Draghi e quello a Mattarella. Se la coalizione, come forma politica, è incapace a difendere la sua unità, non è altro che un'aggregazione elettorale posticcia, nata per raccattare i voti col miraggio di progettare una politica comune, che non attuerà mai perché è destinata a sciogliersi chiusa la pesca a strascico del consenso elettorale.

Di riflesso ha perso anche il sistema elettorale maggioritario, che ha svelato il suo limite rispetto al pluralismo politico di casa nostra. La camicia di forza, che ha spinto i partiti a convivenze forzose, si è strappata con una violenza inusitata per il simultaneo sbriciolarsi di entrambe le coalizioni. Sarà inevitabile e anche ragionevole la ripresa delle tensioni verso sistemi proporzionali di traduzione dei voti in seggi, visto che i partiti si dovranno contendere i gradimento degli elettori distinguendosi per identità e programmi.

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La lista dei vinti ha un ultimo sconfitto: i singoli partiti, i cui parlamentari hanno votato secondo coscienza nel segreto dell’urna, lasciando in una sconsolata solitudine il proprio segretario, un generale senza esercito.

Ma la democrazia, che ha perso sul terreno delle coalizioni, si è presa la sua rivincita su quello istituzionale. Il Parlamento si è riscattato dal giogo del partiti; il 29 gennaio le finte intese, i mancati accordi, gli stop and go dei segretari di partito sono stati asfaltati dalla volontà di Deputati e Senatori di chiedere a Mattarella di rimanere per un altro mandato. La loro voce è stata ascoltata: il presidente non ha chiamato al colle i segretari dei partiti, diversamente dal suo predecessore, ma i presidenti dei gruppi parlamentari. Il suo radicato senso di solidarietà, al quale ha richiamato noi in tempo di emergenza, ora ha invitato se stesso ad anteporre il bene comune ai progetti personali che lo avrebbero portato altrove.

Sul palcoscenico di Montecitorio si è però consumato un paradosso: il Parlamento si è destato proprio nel momento in cui vedeva appannarsi la sua capacità rappresentativa della volontà popolare. E’ probabile che questo sussulto di vitalità sia stato dettato dal terrore di uno scioglimento anticipato piu che dal desiderio di aderire al sentimento popolare, che chiedeva un presidente.

Le lancette dell’orologio non sono però ritornate indietro di 6 giorni, solo in apparenza le cose sono rimaste come erano prima che le votazioni iniziassero. Un occhio attento noterà invece che alla riconferma dei due presidenti nei rispettivi ruoli, Mattarella e Draghi, corrisponde un equilibrio politico diverso da quello che inizialmente sosteneva la nascita del governo Draghi. Se nel 2021 Draghi governava un coacervo di forze politiche rissose e indomabili, oggi gli sarà più facile ricondurle ai suoi diktat perché si sono rivelate tutte ugualmente impreparate al compito assegnato loro dalla Costituzione: eleggere il capo dello Stato. Ora dovranno stare zitte e buone, come dice la canzone dei Maneskin.

Questa è la ragione per cui Draghi, che potrebbe sembrare anche lui un perdente, perché la sua autocandidatura è stata prematuramente bocciata da quei partiti che lo avrebbero dovuto sostenere, in realtà ha vinto perché ha sconfitto il feudalesimo partitico. Ora finalmente potrà mantenere le promesse prese con Bruselles.

Chiudo la riflessione politica con una domanda: un mandato anticipato o un pieno settennato quello che inizierà a giorni?

Ritengo che i sette anni per disposto costituzionale non conoscano deroghe in diritto. Inoltre, il percorso che ha portato alla rielezione, cioè la resa incondizionata dei partiti, concorre sul piano politico a confermare la durata piena del mandato. Meno di sette anni solo se il presidente Mattarella vorrà andar via prima, perché intralciato nell’adempimento dei suoi doveri dai giochini dilatori, avversariali e inconcludenti di chi ha rinunciato al mestiere della politica.

Giovanna De Minico, prof.ssa ordinaria Diritto Costituzionale Federico II

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