Chiedi chi erano Elio e le Storie Tese, band più seria del Paese demenziale
di Francesco Prisco
3' di lettura
Il 29 aprile dell’anno scorso convocarono il loro popolo al Forum d’Assago, promettendo «un annuncio bomba». Si sciolgono? Era la domanda che circolava nelle ore precedenti al concerto. «No», fu la risposta: l’annuncio riguardava piuttosto l’uscita dalla line-up di Rocco Tanica, storico «pianolista» che, per motivi personali, avrebbe preso parte alle successive sedute in studio ma non ai tour. «Non posso fare più questa vita. Sarò il Syd Barrett vivo della band», disse giocando con le sue amate iperboli.
Il 19 dicembre prossimo Elio e le Storie Tese chiamano di nuovo tutti a raccolta al Forum. Stavolta lo spirito sembra diverso: «Concerto d’addio», c’è scritto sull’invito che sa di partecipazione a un funerale ed è persino sponsorizzato da una nota ditta di pompe funebri. Fanno sul serio o si tratta dell’ennesima presa per i fondelli? Viene spontaneo chiederselo quando hai di fronte una band che sull’ironia e la presa in giro (arte nobile che in inglese si chiama mocking) ha costruito 37 anni di carriera. Un po’ ci piace credere a questa seconda ipotesi: un Last Waltz in stile Pooh, insomma, colleghi che in questi anni si sono sciolti in parecchie occasioni, salvo poi rimettersi insieme per un altro ultimo concerto. Tuttavia, da quello che capiamo stavolta la faccenda è seria: stavolta gli Elii pare che andranno fino in fondo.
L’epitaffio degli Elii
Restando nella metafora funebre: se toccasse a noi scrivere il loro epitaffio, diremmo che sono stati insieme la band più demenziale di un Paese che ama prendersi troppo sul serio e la band più seria di un Paese incredibilmente demenziale. Se poi parenti e amici ci chiedessero addirittura di spendere qualche parola al loro funerale, piuttosto che tirare in ballo le radici musicali progressive, l’adesione al verbo di Frank Zappa (un signore secondo il quale «il jazz non è morto, ha solo un odore un po’ curioso»), le frequentazioni allo Zelig, una certa idea di milanesità (interista e di sinistra, anche se mai troppo dichiaratamente), partiremmo dall’esperienza personale.
C’era una volta John Holmes
Beati i milanesi che hanno avuto la fortuna di goderseli dai primi concertini para-amatoriali. Noialtri ci accorgemmo di loro più o meno nell’87, quando dall’immaginaria emittente pirata di Lupo solitario, agganciata a Italia 1, omaggiavano John Holmes, padre fondatore del porno anni Settanta coi suoi «trenta centimetri di dimensione artistica».
Fu una rivelazione, bissata due anni più tardi dall’uscita dell’esordio discografico Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu (titolo in singalese intraducibile, per amor di pubblica morale) che conteneva perle come il singolo Abitudinario («Ditemi perché/ se la mucca fa mu/ il merlo non fa me») e quella magnifica sintesi del rapporto uomo-donna nota come Cara ti amo. I giornali li definivano demenziali, ponendoli nel solco di una tradizione che abbracciava Squallor e Skiantos, ma Elio, Rocco, Cesareo, Faso e il povero Feiez erano altra roba: questi qui sapevano suonare, come la Pfm, il Banco e i loro amati Area (li onoreranno a ripetizione nel corso della loro discografia), come nessun gruppo a loro contemporaneo.
La tentazione mainstream
Negli anni Novanta la trasmissione cult era Mai dire Gol e la sigla firmata dagli Elii una specie di feticcio per la Gialappa’s Band. Che sorpresa vederli a Superclassifica Show con il tormentone dance del Pippero e l’improvvisa fraternità fatta di falangi ruotate tra Italia e Bulgaria. Nulla rispetto a quello che provammo quando apparvero sul palco di Sanremo vestiti da Rockets. E che Sanremo: secondi nel ’96 con La terra dei cachi, secondi nel 2013 con il delirio sperimentale de La canzone mononota, 12esimi nel 2016 con Vincere l’odio, quando forse avrebbero fatto meglio a non partecipare.
La «scena del musicale»
Un progetto aperto e in perenne mutazione quello loro: gli ammiccamenti mainstream di Elio che fa il giudice a X Factor, canta negli spot televisivi e non dimentica il teatro, le surreali rassegne stampa di Tanica, l’architetto Mangoni «artista a sé» che li affianca dal vivo, tutto un immaginifico imaginario che spazia dal «Vitello coi piedi di balsa» a supereroi tarocchi del calibro di «Supergiovane» e «Shplaman», da eventi fondanti come «La festa delle medie» al «Complesso del primo maggio», impareggiabile fenomenologia del luogocomunismo da Concertone sindacale. Insomma: si chiude davvero qua la loro parabola? Forse no, ma se è sì «la scena del musicale si è impoverita senza dubbio alcuno».
loading...