Ci sono muri che indicano una coabitazione guardinga più che una distanza
di David Bidussa
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Le frontiere, scrive lo storico Lucien Febvre a metà degli anni '20, segnano luoghi di passaggio, più che linee di interdizione. L'idea di Febvre è che i luoghi di confine sono punti di sutura più che di frattura. Fine della politica è nel proporli appunto come luoghi di sutura per fare in modo che lo siano per davvero: la geografia non è mai ciò che c'è e la politica è uno strumento per fare in modo che la geografia non sia il registro dei conflitti. Oggi vige un diverso principio. I muri ci appaiono come naturali. Lo storico francese Claude Quétel, che con pazienza si è messo a indagare non solo il funzionamento di quelle fratture, ma anche l'origine, la diffusione, la crisi e talora il crollo, scrive nelle righe conclusive di questo suo libro che i muri «non pretendono di essere soluzioni. Sono risposte».
Una conclusione che ha un doppio significato: da una parte le frontiere non sono oggetti dati, hanno una storia e nascono in relazione a un rapporto tra attori che si fronteggiano. Dall'altra ci sono muri diversi che rinviano a cause, funzioni e anche storie distinte. Ci sono muri che indicano una coabitazione guardinga più che una distanza. Così accade nell'antichità. È per esempio il caso del tracciato fortificato che segue il Reno e che divide Roma dai Germani. L'effetto, nel tempo, è quello di creare i Germani come coscienza di sé. Finalità simili ha la muraglia cinese, volta più al contenimento che non alla separazione.
Un muro diverso è quello del vallo danese costruito nell'Alto Medioevo per impedire ad altri di invadere la Danimarca. Il timore è quello che giungano dei barbari da Sud, salvando il proprio livello di civiltà. Nel tempo il risultato sarà opposto, decretandone l'isolamento rispetto ai ritmi dello sviluppo europeo.
Ma quella del vallo danese, più che un'ironia della storia, dice di una regola: si erge un muro di separazione, una muraglia che è di difesa e di frontiera, quest'ultima sempre per iniziativa unilaterale, perché non si vuole frequentare chi sta dall'altra parte. Accade a Manhattan già nel '600 in quella che è oggi Wall Street, un luogo che al momento dell'insediamento olandese e poi degli inglesi, successivamente, segna lo spartiacque tra nuovi arrivati e la popolazione indigena che viene collocata dall'altra parte.
Diverso il caso dei muri di prescrizione. Il fine non è non frequentare qualcuno, ma controllarlo. I muri dei lazzaretti, le zone di reclusorio isolate dal resto della città negli episodi di epidemie sono esempi di questo tipo. Così come i ghetti ebraici che si diffondono in Europa a partire dal '500. Spazi urbani che servono a controllare una popolazione, ma che talora sono anche dei territori di rifugio per i loro abitanti (è ciò che accade nei giorni di Carnevale, quando per gli ebrei il ghetto diventa una protezione, più che una prigione, perché li sottrae al possibile linciaggio della folla). Il ghetto così non è solo una struttura di costrizione, talora è anche uno scheletro che “salva” e, nel tempo, fornisce identità. È uno dei motivi per cui l'abolizione del ghetto non significa automaticamente fuoriuscita dei suoi abitanti/reclusi da quel territorio. Spesso, al contrario, si traduce in ulteriore radicamento in quel luogo.
Ma i muri hanno anche altre funzioni. Un fine fiscale, oppure un luogo di memoria. In entrambi i casi è emblematico il caso di Parigi. Il disegno del perimetro murario a fine '700 stabilisce il regolamento daziario e differenzia chi cade dentro la fiscalità e chi ne è esente. A fine '800 il muro dei federati, il luogo dove migliaia di insorti della Comune di Parigi (marzo-maggio 1871) sono uccisi tra il 24 e il 28 maggio, diventa mèta di pellegrinaggio dei cortei della sinistra, dall'inizio del Novecento a oggi.
Il Muro di Berlino raduna tutte le funzioni illustrate finora: muro di costrizione, frontiera, luogo di esclusione. Una icona della divisione che nel momento in cui si disintegra, la notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, con centinaia di migliaia di persone che l'attraversano sembra decretare la fine dell'idea stessa di separazione e che per alcuni significa anche il ritrovamento di una parte della propria vita come dirà Mstislav Rostropovich: l'11 novembre in mezzo alla folla si presenta di fronte al muro per suonare il suo violoncello e ritrovare in quel luogo, come dirà, l'altra metà della sua vita spezzata in due dall'esilio.
I muri non sono finiti allora. Nei 25 anni circa che ci separano da quella scena, nuovi muri sono sorti in molte parti. Muri di separazione che dividono popolazioni in conflitto (a Gaza e in Cisgiordania, a Hong Kong, per esempio) ma soprattutto di protezione.
Sono ora i ricchi che si isolano in nome della sicurezza, della tranquillità, del silenzio, del diritto alla propria privacy. Con ciò segnando anche un differente significato delle parole. Pubblico significa “invasione di campo”, privato diventa sinonimo di salvaguardia.
Forse è cominciata un'altra storia, suggerisce Quétel, e i muri di oggi sono destinati ad avere un futuro, più che essere un residuo del passato: non più segno della vergogna o dell'offesa, ma della tutela. Per questo, suggerisce, la loro abolizione non è più una priorità. Magari teorizzando che ognuno ha diritto al suo muro. È la conseguenza della società multiculturale anziché dell'intercultura. Una condizione che propone spazi per tutti, ma senza contaminarsi. Coabitando, ma senza mescolarsi. Ciascuno «a casa sua».
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