Cina bloccata dal virus: import-export a rischio, crolla il consumo di petrolio
Pechino pronta a concedere certificati di «forza maggiore» alle società che non riescono a rispettare contratti di fornitura internazionali
di Sissi Bellomo
4' di lettura
L’isolamento della Cina a causa del coronavirus si sta trasformando in un incubo logistico, che minaccia di avere un impatto pesante sulla supply chain globale. Il rischio è aumentato ora che Pechino si è detta pronta a concedere certificati di «forza maggiore» ai soggetti che a causa delle difficoltà nei trasporti non saranno in grado di rispettare contratti commerciali.
Un carico di soia o una petroliera, a determinate condizioni, potranno dunque essere respinti al mittente senza pagare il corrispettivo né incorrere in alcuna penale. Lo stesso scudo legale potrà difendere anche fornitori cinesi per la mancata consegna di materie prime o prodotti di qualunque genere, dall’acciaio alla componentistica auto alle t-shirt stampate.
Anche questo sviluppo – molto importante sotto il profilo del diritto commerciale – ha probabilmente contribuito ad allarmare l’Opec Plus, che ora sta valutando se rendere ancora più drastico il taglio della produzione di greggio. Per ora è stata convocata solo una riunione tecnica ristretta, ma questa potrebbe preparare il terreno a un vertice anticipato rispetto all’appuntamento in agenda il 5-6 marzo.
Sul tavolo, secondo il Wall Street Journal, c’è l’ipotesi di un taglio supplementare di 500mila bg da mantenere finché l’allarme per l’epidemia non sarà cessato oppure un maxitaglio che l’Arabia Saudita farebbe da sola, per un milione di barili al giorno, in modo da dare una scossa al mercato.
La domanda petrolifera sta già soffrendo, con una contrazione stimata dei consumi di circa un quinto in Cina, ossia di ben 3 milioni di barili al giorno: un impatto paragonabile solo a quello provocato dall’attentato alle Torri gemelle di New York. E le quotazioni del barile affondano sempre più rapidamente.
Nell’ultima seduta un ribasso superiore al 3% ha spinto il Brent sotto 55 dollari, ai minimi da 13 mesi. Il Wti – che a gennaio ha perso il 16%, il peggior risultato mensile da trent’anni – è sceso sotto 50 dollari.
Ad offrire lo scudo legale della «force majeure» alle società cinesi è il Consiglio per la promozione del commercio internazionale, che ha messo i certificati a disposizione delle aziende che «non sono riuscite a rispettare contratti nei tempi previsti o non riescono ad adempiere a contratti di commercio internazionale» a causa di un comprovato ritardo o cancellazione di servizi di trasporto via terra, aria o mare.
Le domande presto potrebbero arrivare a valanga. La Russia ha da poco chiuso le frontiere con la Cina: oltre 4mila chilometri di confine attraverso il quale transitano non solo milioni di persone, ma merci per circa 110 miliardi di dollari l’anno.
Per ora, almeno ufficialmente, non risulta che ci siano porti completamente chiusi. Diversi scali marittimi tuttavia – soprattutto nell’area di Wuhan, epicentro della diffusione del virus e importante hub industriale – stanno rallentantando le attività di carico e scarico, frenati dalla carenza di mezzi per per trasferire le merci: molti autisti di Tir non sono tornati dalle ferie dopo il Capodanno lunare, altri evitano i viaggi a lunga percorrenza, per non rischiare di essere trattenuti in quarantena.
In alcune aree della Cina è stata limitata la circolazione sia sulla rete stradale che su quella ferroviaria. Quando nei porti si esauriranno gli spazi di stoccaggio dei carichi, la paralisi sarà inevitabile. E le clausole di foza maggiore saranno difficilmente contestabili.
La Cina non ha certo fretta di approvvigionarsi di materie prime. Le importazioni erano state molto elevate a dicembre (come sempre accade in vista del Capodanno lunare) e centinaia di stabilimenti hanno prolungato la chiusura per festività, fino alla prossima settimana e oltre.
Le attività si sono fermate in una dozzina di province, alcune delle quali molto importanti per la produzione industriale, come l’Hebei, lo Yunnan, lo Shandong. Nelle aree colpite da restrizioni, secondo Bloomberg, sono concentrate il 90% delle fonderie di rame della Cina, il 60% delle acciaierie e il 65% delle raffinerie di petrolio.
Ci sono anche molti rigassificatori, responsabili di due terzi delle importazioni cinesi di Gnl. Molti acquirenti starebbero già pensando di far ricorso alla clausola di forza maggiore: una beffa per gli Stati Uniti che solo ora si sono visti riaprire le porte del mercato cinese, grazie alla tregua sui dazi.
L’intesa, siglata meno di un mese fa, impegna Pechino a importazioni extra dagli Usa per 200 miliardi di dollari nei prossimi due anni. Petrolio, gas e prodotti agricoli dovrebbero fare la parte del leone, ma gli acquisti cinesi invece che aumentare – come il mercato si aspettava – crollano a vista d’occhio.
Il maggiore importatore di greggio della Cina, Sinopec, ha ordinato alle raffinerie di ridurre le lavorazioni del 12% (600mila bg) questo mese, gli impianti indipendenti dello Shandong in una settimana hanno tagliato la produzione di carburanti del 30-50%.
La Repubblica popolare proverà a tirarsi indietro con gli Usa, grazie a una clausola degli accordi che prevede consultazioni «in caso di disastri naturali o altri eventi imprevedibili». L’epidemia di coronavirus di certo offre un buon alibi.
Per approndire:
●Coronavirus: crolla domanda cinese di petrolio, Opec pronta al taglio
●Ecco perché il coronavirus fa tremare i mercati delle materie prime
●Soia, petrolio, gas. Ecco perché il mercato non può credere ai patti Usa-Cina
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