la strage attraverso i libri

Cinquanta anni fa la strage. Chi è il vero «mostro» di Piazza Fontana

Dopo mezzo secolo, non c’è una sola condanna in via definitiva. Una selezione degli ultimi volumi sulla vicenda approdati in libreria

di Raffaele Liucci

Piazza Fontana, la verità storica che supera quella giudiziaria

4' di lettura

Eccolo qui, il vero «mostro» di piazza Fontana. Non il ballerino anarchico Pietro Valpreda, così apostrofato all’epoca anche dal «Corriere della Sera», bensì le centinaia di faldoni giudiziari, frutto di cinque istruttorie, tre processi, dieci gradi di giudizio complessivi: senza che un solo colpevole risultasse condannato in via definitiva per i 17 morti e i quasi 90 feriti causati dalla bomba scoppiata il 12 dicembre 1969 all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano.

Da quelle carte ingiallite – ora digitalizzate e accessibili a tutti gli studiosi – traspare una verità giudiziaria incompiuta , nel frattempo assurta a verità storica. L’ultima sentenza di Cassazione del 2005 ritiene infatti provata la responsabilità di Franco Freda e Giovanni Ventura (esponenti della cellula veneta del neofascista Ordine Nuovo), ormai non più processabili perché già assolti nel precedente giudizio di Catanzaro (conclusosi in Cassazione nel 1987).

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Conosciamo quindi alcuni esecutori, non i mandanti, coperti da numerosi depistaggi. Sullo sfondo s’intravede il primo rintocco di una «strategia della paura» (Angelo Ventrone) mirante non tanto a un golpe classico, quanto a condizionare il quadro politico in senso centrista, atlantico e anticomunista. Destabilizzare per stabilizzare.

Cinquant'anni fa l'attentato di piazza Fontana

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Navigando fra i faldoni processuali, si traggono alcuni insegnamenti fondamentali. Primo: i documenti giudiziari si confermano una fecondissima fonte storica. Non soltanto quelli riassuntivi, ossia le sentenze-ordinanze dei giudici istruttori e le sentenze delle Corti d’Assise, ma gli atti processuali completi: un oceano cartaceo che, sondato cum grano salis, nasconde scintillanti pepite.

Secondo: la concezione monolitica dello Stato, spesso richiamata dopo l’attentato del 12 dicembre (a partire dall’ambiguo pamphlet del 1970, Una strage di Stato, edito da Samonà e Savelli), era fuorviante. Lo Stato non fu incarnato solo dal famigerato Ufficio Affari Riservati, in cui nacque lo sviamento della «pista anarchica», ma anche dai magistrati e militari che misero in gioco la propria carriera, se non la vita, nel perseguire i reali colpevoli.

Terzo: nell’Italia di allora, l’ordine giudiziario era impreparato ad affrontare un simile eccidio indiscriminato di civili. Non soltanto per la mancanza di un adeguato «know how», ma anche per la mentalità conservatrice se non reazionaria che permeava le alte sfere della magistratura, formatesi in epoca fascista e incapaci di cogliere il disegno complessivo di una strage non rivendicata. Le Corti d’Appello e la Cassazione smonteranno pervicacemente indagini, istruttorie e sentenze cui erano pervenute toghe più giovani, cresciute in età repubblicana.

Benedetta Tobagi ha compulsato questi sanguinanti scartafacci con la giusta distanza dello storico e l’acribia del filologo, condensandoli in un libro che – ricostruendo dettagliatamente per la prima volta un «processo impossibile» durato ben 36 anni – offre una visione d’insieme che nessun altro ricercatore era stato finora in grado di tracciare con altrettanto rigore.

Piazza Fontana rivelò anche la frattura tra magistrati romani (ontologicamente attenti agli equilibri del potere politico) e milanesi e veneti, assai più coraggiosi. I «settentrionali» sono i veri protagonisti del fortunato libro di Gianni Barbacetto, giunto alla terza edizione rinnovata, mentre Angelo Ventrone ha curato anche un denso volumetto in cui le varie trame eversive – da piazza Fontana alla P2 – sono ricostruite dagli stessi magistrati che le hanno indagate (ci sono, fra gli altri, i contributi di Pietro Calogero, Giovanni Tamburino e Giuliano Turone).

Un discorso a parte merita il più giovane Guido Salvini, il quale già nei primi anni Novanta aveva dischiuso «la porta sull’inferno», come scrive Barbacetto, iniziando a istruire un nuovo processo su piazza Fontana conclusosi nel 2005 con la citata sentenza della Cassazione, che confermerà l’assoluzione (dubitativa) degli ordinovisti Delfo Zorzi e Carlo Maria Maggi, avallando però la matrice neofascista veneta. Ora Salvini pubblica un tomo di oltre 600 pagine in cui ripercorre amaramente la storia della propria inchiesta, fra testimoni dimenticati e pellicole Super 8 – mai ritrovate – che avrebbero documentato l’arrivo dello stragista a bordo di un camion e la successiva esplosione.

Secondo il magistrato milanese, su piazza Fontana non si è potuto raggiungere una piena verità giudiziaria non solo per la frammentazione dei processi e l’acquisizione a singhiozzo delle prove, ma anche per le gelosie e rivalità che negli anni Novanta hanno segnato i rapporti fra i magistrati. Certamente le aspre pagine riservate dall’autore a tanti rinomati colleghi non passeranno inosservate.

Nella miriade di titoli usciti per il cinquantenario, si distingue il libro di Francesco Lisanti, anch’esso imperniato sulle carte processuali. Si tratta di un’eccellente ricostruzione, dalla grande forza narrativa, del milieu in cui si formarono e agirono Freda, Ventura e gli altri «legionari», dietro ai quali s’indovina un sottobosco formato da pezzi della Destra, militari infedeli alla Costituzione, servizi segreti italiani e americani.

Spunta anche il commissario Luigi Calabresi, fra i comprimari della prima inchiesta contro gli anarchici, accusati falsamente delle bombe nere scoppiate il 25 aprile 1969 alla Fiera e alla Stazione Centrale di Milano. Quasi una «prova generale» (Paolo Morando) del depistaggio messo in atto all’indomani di piazza Fontana, che porterà alla misteriosa fine del ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli (la «diciottesima vittima» della strage), precipitato dal terzo piano della questura la notte del 15 dicembre (sulla sua figura, si veda ora il libro di Paolo Pasi).

L’assassinio di Calabresi (17 maggio 1972), bollato dalla «piazza» come il maggior responsabile della morte di Pinelli, resta forse l’episodio più inquietante e indicibile originato dall’ordigno del 12 dicembre. Si riaffaccia a più riprese anche nel libro di Enrico Deaglio, un viaggio autobiografico tra i luoghi della tragedia, dalla dimora di Pinelli al fatiscente ex Hotel Commercio, affacciato sulla banca e a quel tempo diventato «casa dello studente e del lavoratore». Come è suo costume da alcuni anni, anche in questo caso Deaglio firma un suggestivo apologo metafisico sulle maschere del potere italiano. Quando però tenta di scagionare i suoi ex compagni di Lotta Continua dall’accusa – passata in giudicato – di aver assassinato Calabresi, indulge a un complottismo poco persuasivo.

Infine, chi desiderasse un agile e aggiornato compendio sulla «madre di tutte le stragi» può trovarlo nel libro dello storico bolognese Mirco Dondi, già autore nel 2015 di una storia della «strategia della tensione» (Laterza).

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