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«Ciò che conta è la durata delle cose che facciamo, la visione del futuro che contengono»

Per definirsi sceglie, e riadatta, le parole di Vitruvio. «Per essere un architetto devi essere un ingegnere, un matematico. Un muratore, un pittore, uno scultore

di Roberto Bernabò

6' di lettura

Per definirsi sceglie, e riadatta, le parole di Vitruvio. «Per essere un architetto devi essere un ingegnere, un matematico. Un muratore, un pittore, uno scultore. Devi sapere di numeri, devi guardare le stelle, devi saper scrivere, cantare, dipingere. Avere una visione. Una visione non olistica, perché olistica suona sempre un filo “centro massaggi”. Ma appunto una conoscenza incredibile per rispondere a un livello di complessità altissimo».

Piero Lissoni ti strappa subito un sorriso. E davvero lì c’è molto di questo architetto e designer colto e raffinato, brillante e ironico, brianzolo diventato gioioso narratore di Milano, che da oltre 30 anni guida uno studio associato internazionale, firmando progetti di case, alberghi, uffici e il meglio del design non solo italiano. La sua curiosità culturale, la sua formazione, sono la firma anche di questa scelta professionale di uno studio orizzontale in tempi di grande verticalità delle competenze.

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«Io mi sento un uomo europeo, quindi una miscela di culture. Sento fortissimamente il modello umanistico, che non è antiscientifico. Non vorrei fare il saccente, ma noi cominciamo a parlare di modello scientifico nel Secolo dei Lumi. Passiamo dall’alchimia alla chimica. Quindi, parafrasando, la scientificità diventa più specialistica. Ma nel mio mondo noi tocchiamo delle cose che hanno sempre una misura. La specializzazione può anche andare bene, ma non vorrei mai dimenticarmi questa misura. E allora preferisco essere più confuso. Più miscelato».

Se Vitruvio, nella seconda metà del I secolo a.C., detta le regole dell’architettura, cosa ci aggiunge oggi Lissoni? Come si arricchisce nella società tecnologica la dimensione di un architetto? «Con il coraggio di riportare sempre l’essere umano al centro di ciò che facciamo. L’essere umano inteso come misure, proporzioni, ma anche come modello di intelligenza collaterale, cultura, conoscenza, ignoranza. Se non lo fai, quello che accade lo vediamo: ci stiamo trasformando in una miliardata di scimmie evolute, ma di spettacolare ignoranza. Perché qualche ignorantone, che ora vorrebbe portarci in un mondo parallello chiamato Metaverso, un po’ di anni fa ha cominciato a pensare che bastasse semplicemente digitare su una tastiera per sapere tutto, che potessimo trasformare la cultura in qualcosa di pronto. Forse sto diventando noioso, ma spingo per riportare al centro l’umanità. Quando guardi le architetture del passato scopri che questa proporzione era fondamentale persino se si doveva far mangiare l’uomo dai leoni».

L’ossessione della misura e l’ossessione dell’imperfezione sono dei fari per illuminare Lissoni e farci restituire, con lucidità e ironia, la sua vista sulla vita. «Fino agli anni Cinquanta – racconta seduto a un lato dell’enorme tavolo stracolmo di libri nella sua stanza, nello studio multipiano nel quartiere di Brera – siamo stati capaci di averlo questo senso della misura. Poi l’abbiamo completamente perduto. Credo sia stata la spinta anglosassone, molto americana – e non sono anti-americano – a farci diventare feroci, efficienti». Ma non è un’assoluzione, perché il modello ideologico che ha segnato anni di architettura italiana, Lissoni lo schiaffeggia senza pietà. «Eh sì, dobbiamo fare un passo indietro e non dimenticarci che noi siamo pure quelli che hanno fatto il Corviale, lo Zen, le Vele, Scampia; le periferie dure e crude milanesi, torinesi. Opere figlie di visioni spaventosamente ideologiche – penso alla mancanza della piazza, ma c’era il teatro per le performance piuttosto che il luogo dove i bambini si sarebbero espressi secondo una creatività differente – che ci hanno fatto costruire delle periferie mortali. Poi, siccome al peggio non c’è limite, è arrivato il postmoderno».

Eppure mentre la pandemia avanza, le certezze della nostra vita entrano in crisi, gli architetti diventano i riferimenti. Per mesi e mesi sono stati nostri maître à penser a cui chiedere come ripensare le città, come ridisegnare non solo e non tanto i luoghi del vivere ma in fondo le nostre relazioni. Credendo evidentemente nella capacità dell’architettura di cambiare le nostre vite. È così?

«L’architettura questa forza ce l’ha, ma ha un difetto: che se la sbagli è cattiva. Il punto è lo spazio temporale con cui opera. Da un certo momento in avanti abbiamo smesso di ragionare con la visione del futuro. Abbiamo puntato sulla risoluzione di un problema nel modo più veloce possibile. Che certo alcune volte è sacrosanto ma ha portato, ad esempio, a un disegno scellerato delle periferie. Si è risolto forse il problema di dare una casa, ma ci si è dimenticati di costruire un tessuto».

Ed eccoci lì, alla misura. Come comprendere quale architettura si sta facendo. Capirlo nel tempo presente. «Non è semplice. L’architettura – spiega Lissoni –ha bisogno di uno scorrimento del tempo. Ci sono edifici che nell’Ottocento erano considerati repellenti e adesso li vediamo come dei gioielli di architettura. Quindi c’è comunque bisogno di un periodo di latenza. Però sono convinto che l’architettura del Novecento da un certo momento in avanti ha pensato in termini brevissimi. E si vede».

Negli ultimi decenni poi la finanziarizzazione del mercato immobiliare, globalizzata, ha deciso forme e modelli dell’architettura, ha inciso sulla qualità di ciò che costruiamo. «Il modello economico-finanziario di efficienza pesa tantissimo. Alla fine l’architettura diventa un prodotto. Poi, come in ogni modello evoluto, c’è una finanza che muove grandi progetti e una finanza che muove progetti miserrimi, basandosi semplicemente sul guadagno molto veloce. Qui entra in gioco qualcosa che chiamerei etica. La durata delle cose che facciamo, la visione del futuro che contengono dovrebbero essere punti chiave e non solo la mera velocità».

Così, ci avviciniamo al mondo di Lissoni, per cercare di definire i punti cardinali del lavoro.

«Che ragioni da progettista di architettura o di oggetti, il primo riferimento è il rispetto nell’uso dei materiali; poi delle proporzioni. Riporto sempre al centro la misura dell’essere umano e non faccio cose che nel giro di qualche tempo debbano essere riciclate. Penso a prodotti che abbiano una buona durata e quando saranno al loro tempo limite si potrà decidere se restaurarli o trasformarli in altro. Non ho la visione dell’architetto che fa l’icona per il futuro. Se si salveranno alcuni dei miei oggetti o delle mie architetture, bene, altrimenti so che li ho costruiti perché possano essere riciclati in altro. Così, mi sento più a mio agio proprio quando posso mettere le mani su un edificio esistente, senza consumare nuovo suolo».

Osservare lo studio oltre il tavolo è cogliere citazioni di quel mondo del design che lo vede come uno dei più prolifici interpreti, art director delle più prestigiose aziende italiane. Ma come si alimenta la creatività per poter dialogare dentro la modernità con tanti marchi diversi? «Fondamentali sono gli interlocutori. I veri creativi sono loro. Il direttore d’orchestra è la tua controparte imprenditoriale. È questa relazione stretta e funzionale la chiave. Se alcuni miei colleghi raccontano che loro sono il cuore del progetto, per me è una bugia». Ed eccola la battuta che dipinge il carattere di Lissoni, la sua dimensione sociale. «Insomma io sono Suslov e loro Stalin. E mi scelgono come faccia pubblica perché sono spaventosamente decorativo».

Il sorriso sornione apre la porta per indagare la “seconda legge” di Lissoni: l’ossessione nella ricerca dell’imperfezione. «I progetti che mi piacciono di più sono quelli che intimamente sento di non aver concluso come avrei voluto. Io non sono mai contento, se fosse per me rimescolerei continuamente le carte. È chiaro che costruendo un edificio non puoi farlo. Ma da designer lo faccio finché non mi dicono: “Non mettere più i piedi in azienda”. Perché continuerei all’infinito alla costante ricerca dell’imperfezione. Lo so, è un po’ da schizzati».

Ecco l’ultimo sguardo. Sulla sua Milano, la Milano delle “mille sfumature di grigio” che Lissoni ama raccontare lasciando incantati gli interlocutori. Cosa serve alla città dopo la pandemia?

«Milano intanto non ha bisogno di guru. Questa è oggi una delle città più veloci che ci sia, almeno in Europa. Con una centralità fisica miracolosa. Non sarà spettacolare come Londra, Parigi o Berlino o tante città d’arte italiane, come pensano alcuni detrattori, però è bella, viva, ben organizzata. È chiaro che ha dei difetti, a me piacerebbe che le parti fuori dal centro, quindi gli altri centri di Milano, fossero ancora più squillanti. Ma in quella direzione si sta andando. Penso ai grandi progetti in campo: lo scalo Farini, lo scalo di Porta Romana, la metropolitana che partirà fra qualche mese, tutta l’area della Fiera, i nuovi ridisegni urbani pensati per il futuro. Progetti senza rumore di fondo ideologico, col pensiero a un’inclusione differente, con tanti centri con una loro identità. Ecco Milano ha avuto la fortuna di una continuità sostanziale di visione del suo sviluppo, passando anche attraverso amministrazioni di colore diverso che hanno provato, una dopo l’altra, a migliorare le scelte. Un segno di spaventosa civiltà».

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