padri e figli / 1

Classi di ferro

Un virus malvagio, questo Covid-19. Ha rotto il patto tra generazioni, le ha messe le une contro le altre e i giovani li ha colpiti due volte. Privandoli del welfare informale garantito dai nonni, togliendo la speranza di un futuro migliore e, quel che è peggio, la possibilità che i nipoti di oggi diventino genitori domani

di Alberto Orioli

La fotografa Stephanie Brunia ritrae se stessa insieme con suo padre. «Io e mio padre siamo nati entrambi di giovedì. Lui attribuisce una rilevanza particolare a questo tipo di dettagli. Io li vedo come dei retaggi tenui, assai meno significativi di quelli genetici che condividiamo, ma nonostante questo ci individuo dei percorsi sottilmente paralleli»

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La nuova religione degli adepti di R con zero che hanno fede nella matematica salvavita ci ha portato a guardare al giorno per giorno come a un grafico a tre curve. Come a un'attesa angosciosa per l'annuncio di un plateau che volgesse alla discesa nel numero dei nuovi contagi, nel numero dei dimessi dalla terapia intensiva e soprattutto nel numero dei morti.

Numeri appunto. L'entità statistica è diventata suprema. Tanto più da quando è assurta a simbolo assoluto della Scienza (che, invece, è anche dubbio e immaginazione). E a quella ci orientiamo nella nostra condotta disciplinata di distanziamento sociale o meglio fisico. Con i numeri camuffiamo volti e storie di persone; cifre di una umanità enumerata in modo cardinale e passata in rassegna senza la fatica di conoscerne volti, come accade quando a gestire la comunicazione delle guerre sono solo i bollettini militari, preoccupati soltanto di evitare che i numeri diventino storie, passioni, desideri, ambizioni e fallimenti. Insomma, persone.

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La fase acuta dell'invasione di questo sconosciuto morbo aereo ha colpito soprattutto una generazione e ha responsabilizzato le altre nel nome del supremo interesse della salute pubblica. «Classe di ferro», dicevano i commilitoni quando c'era il servizio militare obbligatorio. Anche se era detto per celia, creava appartenenza. E orgoglio. E, anno dopo anno, la classe di ferro si rinnovava, man mano che procedeva la chiamata alla leva con i suoi riti d'iniziazione e il linguaggio da tribù. Quei numeri angosciosi oggi accatastano cadaveri senza alcuna pietà, senza compassione per quelle classi di ferro. Le pandemie hanno la brutalità di sempre, portano paura e angoscia come ai tempi della peste del Trecento, la morte nera. Ciò che è peggio, la modernità porta un sovrappiù di cinismo nel presunto calcolo razionale dei costi e dei benefici sui salvataggi da fare.

L'economia degli attuari porta inevitabilmente a contrapporre i costi sociali tra giovani e vecchi, in un perenne triage di guerra affidato solo alla statistica. Così, in quel rosario quotidiano di dolore reso ragioneria, si sono persi i volti e le storie soprattutto della generazione di chi ha portato l'Italia nella stagione della libertà: una generazione di nonni che, quando c'era da combattere da ragazzi, ha messo a rischio la propria vita per uscire dalla dittatura. Forse è la prima volta dal Dopoguerra che quell'idea ha preso concretezza oltre le retoriche celebrative, perché è la prima volta che qualcuno, la nostra libertà, l'ha limitata, a tratti tolta.

«La libertà non si definisce, si sente», era l'orgogliosa risposta di Vittorio Emanuele Orlando, il presidente della vittoria, il politico dell'Italia del Piave, a un Mussolini che lo provocava. Ebbene adesso la sentiamo, eccome, quella libertà che abbiamo ereditato dalla Seconda guerra mondiale e ha la stessa grammatura morale di quella sentita da Orlando. E con essa torniamo a sentire simpatia e gratitudine verso quelle classi di ferro. Che, tra l'altro, hanno continuato negli anni più recenti a riequilibrare le dinamiche tra le generazioni, sconvolte dalla storia più prossima. L'Italia ha perso almeno due generazioni di giovani; non per la guerra, ma paradossalmente per la pace, per quel senso di gaudente ed entusiastico tributo alla vita che non prevedeva il peso dei figli, vuoi per un contraccolpo di interesse solo verso di sé e verso un eterno presente, vuoi per una difficoltà obiettiva a gestire la nascita di figli in un momento di lavori precari, sempre più duraturi, e di orizzonti incerti, sempre più pervasivi.

E la generazione falcidiata dal Covid-19 è quella che ha garantito un welfare informale mentre quello ufficiale sgretolava anno dopo anno le sue certezze finanziarie. Una classe di ferro forse consapevole di aver vissuto una stagione in cui il patto tra generazioni aveva prodotto le sicurezze pensionistiche oggi diventate impossibili. E, giorno per giorno, cercava di riequilibrare le cose con la concretezza del silenzio. Ora se ne è andata: senza riti funebri, senza l'elaborazione necessaria per il trapasso, senza carezze, senza conforto. Né per loro, né per chi resta, impigliato nel senso profondo di frustrazione e di inutilità. Ma è anche la generazione dei Millennials a pagare un prezzo alto. Sempre in disciplinato silenzio. Forse ancora più alto proprio perché non trova chi lo denunci in questo tragico accavallarsi di codici rossi e di respiratori che mancano, di medicine da inventare e di vaccini cui aggrapparsi come estremo atto di fede.

I loro lavori sono proprio in quei settori più colpiti (eventi, comunicazione, turismo, cultura) svaporati nel momento del lockdown che in questi comparti non può nemmeno conoscere eccezioni. E sono quelli propri del mondo dei contratti flessibili, dalla Gig Economy alle partite Iva.

La pandemia li ha ricacciati nelle file dell'esercito della sfiducia: i cosiddetti inattivi che non cercano un'occupazione perché non ritengono di poterla trovare. In un solo mese, a marzo, sono stati oltre 300mila i giovani (soprattutto) che si sono aggiunti a quanti hanno perso le speranze. E chi può resta nella statistica degli occupati solo perché percepisce la cassa integrazione. Un virus malvagio, questo Coronavirus. Che mette le tante classi di ferro le une contro le altre.

I giovani li ha colpiti due volte: perché ha dato una mazzata fortissima al pilastro informale dello stato sociale e ha tolto loro le speranze per un futuro migliore. E, ciò che è peggio, ha ridotto di riflesso la possibilità che i nipoti di oggi possano diventare genitori domani. Il virus ha anticipato – stime Istat alla mano – di almeno dieci anni la possibilità che in Italia la natalità si riduca a meno di 400mila nati all'anno. Era una tragica soglia, simbolo di una civiltà in autoestinzione, ma era fissata al 2032. Ora è stata bruscamente anticipata al prossimo anno.

La pandemia ci ha messo di fronte allo spreco più grande del nostro tempo: la vera classe di ferro dei giovani più istruiti e talentuosi di sempre lasciata a se stessa. Il capitale umano più pregiato abbandonato ad arrugginire nella vacuità di non luoghi diventati l'immensa discarica del nostro scontento.

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