Clessidra con Ghizzoni sugli Utp. «È qui il credito per lo sviluppo»
Il nuovo fondo della Sgr controllata da Italmobiliare parte con una dotazione di 320 milioni: 270 nel comparto crediti, dove ci sono le posizioni verso 14 aziende italiane cedute da 10 gruppi bancari e altri 50 nel comparto nuova finanza
di Marco Ferrando
4' di lettura
Anche Federico Ghizzoni entra nella nutrita schiera dei banchieri che non hanno saputo resistere alla tentazione degli Utp, i crediti semideteriorati. L’ex ceo di UniCredit da due anni è vice presidente di Clessidra, ed è proprio con la Sgr controllata da Italmobiliare che ieri ha avviato il Clessidra Restructuring Fund. «In questo mercato c’è molto valore, che le banche fanno fatica a estrarre per una serie di nuove regole, giuste o sbagliare che siano», spiega a Il Sole 24 Ore: «Ed è qui che si può fare, attraverso la nuova finanza, il credito per lo sviluppo, quello che serve a rilanciare le aziende».
Con Ghizzoni, responsabile della gestione è Giovanni Bossi, insieme a un altro ex UniCredit come Massimiliano Fossati, Silvio Longari e Luca Marson. Il fondo parte con una dotazione di 320 milioni: 270 nel comparto crediti, dove ci sono le posizioni verso 14 aziende italiane cedute da 10 gruppi bancari (che in cambio hanno ricevuto quote del fondo) e altri 50 nel comparto nuova finanza, fondi raccolti presso istituzioni italiane che saranno utilizzati per contribuire al rilancio e allo sviluppo delle società in portafoglio.
Il mercato italiano degli Utp, i crediti unlikely to pay si sta affollando: cosa intende offrire Clessidra?
Anzitutto la sua credibilità, non a caso siamo riusciti a mettere insieme dieci banche diverse e a convincerle a uniformare il valore dei crediti in uscita. E poi l’identità: la Sgr è controllata da impreditori, è abituata a trattare con le imprese, parla la loro lingua.
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Però si tratta di aziende in difficoltà: che cosa chiederete loro?
Anzitutto spiegheremo che non è nostra intenzione portargli via l’azienda, infatti la conversione del credito in equity è una delle ultime opzioni. Poi ascolteremo e condivideremo i piani industriali quando ci sono e collaboreremo a costruire quelli che mancano, fermo restando che a guidare è l’imprenditore: noi siamo creditori, e il nostro intento è quello di proteggere e massimizzare il valore del credito.
In base a quali requisiti scegliete le aziende in cui entrare?
Devono avere una dimensione compresa tra i 60 e i 200 milioni di fatturato, e al tempo stesso dobbiamo essere in grado di approdare ad almeno il 50% dell’esposizione debitoria. Per il resto non abbiamo requisiti particolari, né di settore né di altro genere.
Che peso ha il real estate?
Marginale. Non siamo interessati a società del settore, al massimo ci possono essere immobili in garanzia dei crediti ma non è ciò che ci attira.
Oltre a quelle del team di gestione, quali competenze metterà a disposizione Clessidra?
Tutte quelle, interne o esterne, che lavorano per il private equity, forte dei suoi 23 investimenti fatti e delle 150 due diligence effettuate in questi anni: siamo in grado di sostenere le aziende nel reclutamento di nuove figure manageriali, in operazioni straordinarie, nella crescita all’estero. E poi c’è la nuova finanza, che integra il credito che le banche tradizionali non possono più erogare: con tutto questo vogliamo essere parte attiva del rilancio delle imprese.
Che cosa ci guadagnano le banche a conferirvi i crediti?
Tolgono le posizioni dal bilancio senza perdite a conto economico, in cambio ricevono quote di un fondo che richiede un modesto assorbimento patrimoniale. È uno schema che interessa, non a caso abbiamo ricevuto segnali di interesse da altri istituti oltre a quelli con cui partiamo.
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Fino a qualche anno fa le banche puntavano a gestire gli Utp in house: ora è cambiata l’aria, come dimostra anche la recente operazione di Prelios con Intesa?
Schemi come il nostro interessano perché aprono a una realistica creazione di valore, e tra gli istituti vedo che si sta facendo strada l’idea che operare insieme con soggetti specializzati è meglio per tutti.
Partite con 320 milioni: dove volete arrivare?
Il fondo può raccogliere fino a 700 milioni in due anni, e puntiamo a un secondo closing per il mese di novembre. Prima di allora, potremo già inserire crediti di nuove banche verso le imprese già in portafoglio ma anche posizioni verso nuove aziende. Puntiamo a diventare una vera e propria piattaforma.
Dottor Ghizzoni, come spiega l’attrazione fatale di voi banchieri per gli Utp?
Sono la nuova frontiera del credito, un terreno su cui servono operatori capaci di affiancare le banche erogando quel credito che alle banche stesse è oggi precluso. Personalmente vedo tutto il valore di una sfida politica e industriale: in Italia il mercato degli Utp oggi vale 85 miliardi, c’è una grande fetta del made in Italy temporaneamente in difficoltà che può essere rilanciato. Non è poco.
Il mercato degli Utp interessa molto anche a operatori stranieri: va difesa la nazionalità di questo patrimonio?
Come ripeto, vista la posta in palio quello degli Utp è una questione di rilevanza politica: per conto nostro siamo italiani e abbiamo raccolto la nuova finanza da istituzioni italiane. Piuttosto, non va sottovalutato il fatto che buona parte dei crediti semideteriorati fa capo a piccole imprese, dove vanno pensati schemi diversi, di più agevole gestione.
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