Clima e Agenda Onu 2030, il mondo è ancora fuori rotta
Attesa per la Cop 28 con il primo inventario sull’impegno globale di riduzione delle emissioni previsto dall’Accordo di Parigi, mentre a sette anni dal traguardo solo il 15% dei target di sviluppo è stato centrato: serve uno scatto
di Chiara Bussi
4' di lettura
Da Parigi a New York, fino a Dubai. È un destino incrociato quello che lega l’Accordo sul clima siglato nella capitale francese e l’Agenda Onu 2030, dove la lotta al cambiamento climatico è la sfida centrale per lo sviluppo sostenibile. Ora per entrambi è tempo di bilanci. Sono passati sette anni dall’entrata in vigore del primo e ne mancano altrettanti al traguardo fissato per il secondo. Due documenti destinati a lasciare il segno, ma che devono ancora essere tradotti nella realtà per imprimere una svolta tangibile. A complicare le cose è la situazione geopolitica, con la guerra in Medio Oriente e il conflitto in Ucraina che non sembra placarsi.
Alla prossima Cop 28 di Dubai (dal 30 novembre al 12 dicembre) i governi dovranno fare il punto sui progressi fatti e sui ritardi. È il “global stocktake”: un cambio di attenzione rispetto a quanto fatto finora dai veri Paesi e contenuto nelle cosiddette Ndc (National determined contributions, i vari piani definiti a livello nazionale, non giuridicamente vincolanti) per tracciare un primo bilancio, una sorta di inventario dei risultati raggiunti. L’esercizio verrà effettuato per la prima volta il mese prossimo, come previsto dall’articolo 14 dell’Accordo di Parigi, sottoscritto da 196 Paesi nel 2015 e in vigore dal 2016. L’obiettivo di lungo periodo è mantenere l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2°C in più rispetto ai livelli preindustriali e proseguire gli sforzi per limitarlo a 1,5°C.
La base tecnica sarà fornita dall’ultimo rapporto dell’Unfcc, gli esperti dell’Onu sul cambiamento climatico. Se gli scienziati hanno già detto la loro, ora tocca alla politica trarre le prime conclusioni. «A livello globale il bilancio non è ancora positivo. Per rendere l’idea ci aiuta la metafora della nave: senza l’Accordo di Parigi e le misure messe in campo finora saremmo in rotta di collisione verso l’iceberg. Oggi lo scenario è meno catastrofico di dieci anni fa grazie agli sforzi fatti, ci troviamo in una situazione intermedia, l’imbarcazione ha iniziato una leggera correzione della rotta, ma occorre fare in fretta», spiega Giacomo Grassi, l’unico italiano tra i dodici membri del Bureau della Task force on greenhouse gas inventories (TFI) dell’Ipcc, il panel intergovernativo dell’Onu sui cambiamenti climatici. Non c’è tempo da perdere e su questo gli esperti delle Nazioni Unite sono chiari: serve maggiore ambizione nella riduzione delle emissioni all’interno dei piani nazionali per una decarbonizzazione radicale, mentre la finestra per agire diventa sempre più stretta. Per questo, scrivono nel report, la cooperazione internazionale è «essenziale» e la transizione, che dovrà riguardare tutti i settori economici, dev’essere giusta, senza lasciare indietro nessuno. Di qui l’invito ai governi di Simon Stiell, segretario esecutivo delle Nazioni Unite per il cambiamento climatici, a «studiare attentamente tutte le evidenze di questo report per comprenderne il significato e le azioni ambiziose da intraprendere».
Raggiungere la méta sarà possibile? «Non è troppo tardi – dice Grassi - ma bisogna sterzare ancora di più per allontanarci dall’iceberg e questo, come ha mostrato la scienza, è possibile solo se si azzerano le emissioni entro la seconda metà secolo». Se durante la pandemia, ricorda Grassi, la corsa delle emissioni aveva subito una battuta d’arresto con una riduzione del 3,7% a livello globale, come mostra il Rapporto Edgar del Joint Research Centre della Commissione Ue, nel 2022 i gas serra nell’atmosfera erano il 2,3% in più rispetto al periodo pre-Covid. La top 6 delle emissioni vede in testa Cina, Usa, India, Ue, Russia e Brasile. Insieme rappresentano metà della popolazione mondiale e circa il 60% del Pil. Lo scorso anno i primi tre hanno aumentato le emissioni, mentre gli altri sono andati nella direzione opposta. Se si amplia la prospettiva qualcosa si muove: «A livello globale - fa notare Grassi - nell’ultimo decennio le emissioni sono aumentate meno del decennio precedente. La fotografia sullo scorso anno mostra un livello di gas serra nella Ue inferiore di circa il 30% rispetto al 1990». Tutti i principali settori in Europa, con l’unica eccezione dei trasporti, li hanno ridotti dal 1990.
Passi avanti, certo, ma bisogna procedere più spediti. Secondo l’ultimo Rapporto Unep, il Programma delle Nazioni Unite sull’ambiente, con le politiche attuali le temperature medie saranno più alte di 2,8 gradi entro la fine del secolo, mentre gli impegni presi finora ridurranno il rialzo tra 2,4 e 2,6 gradi. «Se si continua così - spiega Grassi - in 50 anni Milano raggiungerà la stessa temperatura media annuale che ha ora Roma e la capitale, a sua volta, la stessa di Palermo». Da non trascurare, conclude Grassi «è poi il tema della diseguaglianza delle emissioni: l’1% della popolazione globale emette più gas serra del 50% più povero, la sfida è trovare una strada di equità». Spetterà dunque ai leader riuniti a Dubai fornire le prime risposte.
Ed è tempo di bilanci anche per l’Agenda Onu 2030. Anche in questo caso, come sottolineato a metà settembre al forum di alto livello tra i leader mondiali a New York, il mondo è in ritardo. Tra i 169 target che compongono i 17 Obiettivi solo il 15% è in regola. Le note dolenti riguardano soprattutto la riduzione della povertà, l’accesso all’energia pulita e la conservazione della biodiversità. Ma il Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres preferisce guardare il bicchiere mezzo pieno: «A metà strada verso il 2030 – ha affermato - non siamo neanche lontanamente vicini al raggiungimento degli obiettivi. La cattiva notizia è che abbiamo perso sette anni, la buona è che ne abbiamo ancora sette».
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