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Clima e diversificazione per l'energia in Italia

Ha ragione Davide Tabarelli, nel suo articolo su Il Sole 24 Ore del 19 settembre, quando parla delle “mani sporche dell'Occidente”

di Matteo Leonardi (*)

(Adobe Stock)

3' di lettura

Ha ragione Davide Tabarelli, nel suo articolo su Il Sole 24 Ore del 19 settembre, quando parla delle “mani sporche dell'Occidente”. I missili russi o sauditi che cadono sulle città ucraine o yemenite sono a tutti gli effetti finanziati, seppur indirettamente, da noi, che importiamo e consumiamo gli idrocarburi prodotti ed esportati da quelle che definisce “autocrazie dei fossili”.

La dipendenza italiana ed europea dall'importazione di idrocarburi provenienti da paesi che usano i proventi di questo commercio per imporre la loro visione e i loro valori con la guerra, ci pone dinanzi a un problema morale, oltre che strategico.

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Le opzioni di diversificazione sono poche, specie per il gas: le quantità di GNL importabili da paesi amici, come gli USA, sono limitate, e spesso prodotte con metodi devastanti per l'ambiente, quali la frattura idraulica del terreno (“fracking”), saggiamente vietati in Europa. Gli altri fornitori ricadono probabilmente anche loro nella definizione di “autocrazie dei fossili”, come l'Azerbaigian, che proprio ieri ha lanciato una serie di bombardamenti nel Nagorno-Karabakh, il Kazakistan, l'Egitto, la Libia e diversi Paesi africani con cui l'Italia ha concluso accordi di approvvigionamento di gas in tempi recenti.

Per di più, sostenere lo sviluppo in questi paesi di grandi infrastrutture per l'esportazione di idrocarburi, GNL in particolare, rischierebbe di essere controproducente. La nostra domanda di gas è destinata a ridursi, e di molto: gli scenari forniti dagli operatori di rete (Snam e Terna) e quelli previsti dalle policy indicano che, rispetto al 2021, i consumi di gas in Italia caleranno fra il 23% e il 39% al 2030 per ridursi dell'80% al 2050. Nel frattempo, le grandi compagnie occidentali, spesso con garanzie pubbliche, realizzano in Europa e Africa infrastrutture per il GNL che non verranno utilizzate da noi, già nel medio termine, e andranno a unico beneficio di Cina, India e di paesi che hanno obiettivi di decarbonizzazione più lontani nel tempo.

L'articolo di Tabarelli è una veritiera descrizione del problema, non una proposta per risolverlo. L'alternativa proposta alla diversificazione, ovvero l'aumento della produzione nazionale di idrocarburi, non è percorribile. Il ruolo marginale della produzione nazionale (5% del gas e 8% del petrolio consumati in Italia nel 2022) non è dovuto solo a scelte politiche, ma al fatto che l'Italia e l'Europa sono povere di idrocarburi. In Italia, secondo i dati del Ministero dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica, le riserve di gas naturale certe, ovvero quelle sfruttabili, ammontano a circa 37 miliardi di metri cubi, cioè il 60% di quanto ha consumato il nostro Paese l'anno scorso. Questi volumi, sommati alle riserve probabili e le riserve possibili (cioè di sfruttamento difficile alle condizioni attuali e quindi a prezzi insensati), darebbero all'Italia un'autonomia di nemmeno due anni. Un discorso simile vale per il petrolio, le cui riserve certe (79 milioni di tonnellate), probabili (78 milioni) e possibili (51 milioni) equivalgono in tutto a circa tre anni e mezzo di consumi. Un po' poco per parlare di indipendenza energetica.

Alla convenienza dello sviluppo delle risorse nazionali non credono neppure gli investitori, tanto che il governo, nel 2022, di fronte alla crisi dei prezzi ha tentato di stimolare l'attività estrattiva con il “gas release”, ovvero una tariffa di vendita garantita per il gas estratto. Questo si è tradotto in un nulla di fatto, non per le temibili opposizioni degli ambientalisti, ma proprio perché le nostre fonti fossili non sono convenienti. Del resto la finanza globale, che pur è nota per non disdegnare i ritorni sull'investimento a breve termine, ha da tempo preferito sostenere lo sviluppo delle fonti rinnovabili, considerate come una fonte di reddito più sicura e con orizzonti più lunghi nel tempo. È dal 2016, infatti, che gli investimenti in rinnovabili nel mondo superano quelli nelle fonti fossili: secondo l'Agenzia Internazionale dell'Energia, nel 2022 gli investimenti globali in energia pulita sono stati 1600 miliardi di dollari, cioè il 60% in più rispetto a quelli in fonti fossili. Per il 2023 si prevede che lo scarto sarà ancora maggiore, di circa il 70%.

Per l'Italia non ha alcun senso distrarsi cercando fantomatici investimenti nelle fossili nazionali. Dal giogo delle “autocrazie dei fossili” ci si può liberare non con altre fonti fossili, ma solo con le energie rinnovabili. Oggi il set di tecnologie è disponibile per affrancare dalle fossili il settore elettrico, quello dei trasporti e del riscaldamento. Queste non solo riducono la dipendenza energetica dalle ‘autocrazie fossili' ma contribuiscono a mitigare i cambiamenti climatici i cui impatti futuri saranno ben più onerosi degli investimenti odierni in decarbonizzazione. Che le fossili siano passate solo dall'80 al 75% della domanda mondiale di energia negli ultimi 50 anni è il problema, non certo una motivazione per rallentare la transizione energetica.

(*) Co-Fondatore & Co-Direttore Esecutivo, Politiche Nazionali - ECCO, Il think tank italiano per il clima

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