Clint Eastwood, 90 anni dell’attore con 2 espressioni (col cappello e senza)
Leone minimizzava sulle sue doti intepretative, ma è stato molto di più del «Gringo» della Trilogia del dollaro. Segreti e manie di un genio del cinema
di Francesco Prisco
4' di lettura
A volte può capitare che le «seconde linee» facciano la storia. Riserve, gregari che si trovano al posto giusto nel momento giusto. Ancora più raramente, nella vita come nelle arti, il «terzo» gode. Ma quante volte al mondo sarà capitato che a fare la differenza sia stato il numero 12 della lista? Successe di sicuro nel 1964 con quel capolavoro che si chiama Per un pugno di dollari, film archetipo del genere Spaghetti Western: Clint Eastwood era addirittura la 12esima opzione di Sergio Leone. Quella giusta.
L’outsider senza nome
Riuscireste voi a trovare personificazione migliore del concetto di outsider? Noi no, perché da allora il «Gringo» senza nome ha cavalcato lontano, tra episodi grandi e piccoli della storia del cinema, fino a scoprire una vena originalissima di regista attento all’architettura dell’opera e insieme alla psicologia dei personaggi. Un motivo in più per festeggiare con tutti i crismi del caso il 90esimo compleanno dell’artista americano che, nella sua avventurosa vita, è arrivato dove nessuno avrebbe mai scommesso. Meno che mai i primi che su di lui scommisero.
Come arrivò da Sergio Leone
E qui si torna alla Trilogia del dollaro, a Sergio Leone e alla fondazione dello Spaghetti Western, nella quale il vecchio Clint ebbe tanta parte. La prima scelta del regista romano si chiamava Henry Fonda. Inarrivabile. Stesso dicasi per Charles Bronson e James Coburn. La lista degli opzionabili per il ruolo di protagonista è lunga e comprende anche Pilippe Leroy, restio ad accettare uno pseudonimo americaneggiante come si usava all’epoca, e Richard Harrison che di recitare per 15mila dollari proprio non vuole sapere. Per quella miseria, al massimo ti consiglia un amico sfigato, un californiano che non fa un film dal ’58, vivacchia di telefilm western della Cbs (all’epoca nessuno si sognava di chiamarle serie tv) come protagonista di Rawhide che in Italia nessuno ha ancora mai visto. Leone non è convinto ma alla fine cede alle pressioni produttive: il film è low budget e Eastwood costa poco.
Decisiva fu la moglie
Anche Clint ha qualche dubbio: legge un copione scritto in inglese approssimativo ma accetta perché è la allora moglie, intrigata dalla prospettiva di un viaggio a Roma prima e in Spagna poi, a obbligarlo. La leggenda vuole che soltanto a riprese finite, prima ancora che fosse disponibile il montato, ascoltando l’acetato del 45 giri con la colonna sonora «fischiata» di Ennio Morricone, l’attore americano capisse in che razza di capolavoro era capitato. Il film è un successo planetario e Eastwood diventa l’attore feticcio di Sergio Leone, che continuerà a usarlo in Per qualche dollaro in più (1965) e Il buono, il brutto, il cattivo (1966). Con ben altri cachet - rispettivamente 50mila e 250mila dollari - ma stavolta, considerando il successo dell’accoppiata, nessuno fiata.
L’attore con «due espressioni soltanto»
Curioso a dirsi: i due non si stimavano granché. Su Eastwood, Leone dirà: «Mi piace perché è un attore che ha solo due espressoni: una con il cappello e l’altra senza cappello». A Leone, Eastwood racconterà di avere imposto l’essenzialità dei dialoghi del suo personaggio: «Gli dissi: beh, Sergio, in un western di serie B devi spiegare tutto. Ma in un western di serie A devi lasciare che il pubblico riempia i buchi. E lui disse: okay». Di vero c’è una cosa: tutti e due sgomitavano per attribuirsi i meriti di quanto che era accaduto. Anzi due: da quel preciso momento le loro rispettive carriere presero letteralmente il volo. Meglio ancora, tre: il successo dell’uno ha un debito profondo con i meriti dell’altro.
Mr. Eastwood, l’ispettore Callaghan è tuo!
Dopo la Trilogia del dollaro Clint torna in America da vincitore, continua a cimentarsi con il western (Impiccalo più in alto, 1968), ma in patria nessuno si sogna più di considerarlo attore di serie B. E la saga poliziesca di Callaghan prima - cinque film, a partire da Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo! (1971) - e l’escape movie Fuga da Alcatraz (1979) ne rappresentano la definitiva consacrazione: se nella prima metà del Novecento l’eroe della frontiera americana era John Wayne, nella seconda è chiaro che il testimone deve passare a Clint.
Il regista che re-inventa i generi
Ma chi nasce outsider lo è per tutta la vita. E quando Clint si mette dietro la macchina da presa riesce a sorprendere, passando da film di genere a ritratti intimi di grande sensibilità. In specie quando si parla di musica. Memorabili Honky Tonk Man (1982), amara parabola country, e Bird (1988), biopic dell’immenso Charlie Parker, molto bello pure Jersey Boys (2014) sulla vita tormentata del cantante Frankie Valli. Sa re-inventare il western (Gli spietati, 1992), usare lo sport come metafora esistenziale (Million Dollar Baby, 2004), tornare ancora una volta al genere con grande originalità (The Mule, 2018). Cambia registro, come solo ai grandi artisti riesce.
Questione di «palle»
I suoi 90 anni sono quelli di una tra le pochissime icone della cinematografia mondiale rimaste in vita. Fanno fede cinque Oscar, sei Golden Globe e quattro David di Donatello vinti. Ha guadagnato tanto - si stima un patrimonio personale di 375 milioni di dollari - ed è diventato immaginario collettivo, come testimonia tra le altre cose Clint Eastwood, nel senso della canzone dei Gorillaz. Certo, la fede repubblicana, l’interventismo militare, le battaglie per il libero utilizzo delle armi e gli endorsement per Trump non ne hanno fatto esattamente un campione di simpatia, ma non chiedetegli mai conto di tutto questo. Potreste sentirvi rispondere: «Le opinioni sono come le palle: ognuno ha le sue».
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