Collezioni, mostre, aste dedicate: è il momento di puntare sull'arte aborigena
Profondità di contenuti e tecniche apparentemente semplici. Le opere contemporanee riflettono l’intricato sistema immaginifico e geopolitico che guida questo popolo da 65mila anni.
di Dan F. Stapleton
8' di lettura
Steve Martin ricorda ancora la prima volta che entrò in contatto con l'arte aborigena. «Non avevo mai visto niente di simile. E dire che colleziono opere d'arte da cinquant'anni», dice l'attore. Le grandi tele di linee concentriche di Warlimpirrnga Tjapaltjarri, artista del cuore deserto dell'Australia, erano cosparse di giallo e ocra profondi. Sembravano percorse da onde. Martin, incantato, è uscito dalla Lower East Side Gallery con un quadro. L'ha portato nell'appartamento che divide con la moglie Anne Stringfield, le finestre affacciate su Central Park West, e si è messo a cercargli un posto tra i Morandi e gli Hockney. «Da allora, ne vado pazzo», ammette.
Martin racconta che quel suo primo slancio e apprezzamento un po' ingenuo è diventato presto qualcosa di più: «Libro dopo libro, ho iniziato a capire quanto queste tele siano complesse», nonostante l'apparente semplicità delle linee fluttuanti e ripetitive. Ha studiato il pensiero degli aborigeni (il termine corretto per riferirsi a loro è Aboriginal and Torres Strait Islander peoples, gli aborigeni e gli isolani dello Stretto di Torres) e il loro modo di considerare fisicamente e spiritualmente le terre, i fiumi, i laghi e gli oceani in cui gli esseri umani abitano e con cui hanno legami ancestrali e connessioni linguistiche.
Da qui derivano le pratiche che determinano la vita, inclusi governo, famiglia e identità. Un sistema piuttosto complesso, nel mondo anglosassone convenzionalmente indentificato come “Country”, di visioni oniriche, in cui passato, presente e futuro sono inestricabili, un'entità vivente: la realtà non è, ma si sogna. È questo concetto allargato di “terra” che ispira gli artisti: ciò che dipingono è la trama profonda dell'esistenza. E i risultati sono stupendi. «Sono quadri che possono stare accanto a qualsiasi opera occidentale, senza sfigurare», dice oggi Steve Martin. «Io fantastico di vederli tra Agnes Martin e Jackson Pollock».
Potrebbe accadere fra non molto. Il mondo dell'arte contemporanea si sta, infatti, mettendo velocemente in moto: i Traditional Owner, la popolazione che occupava l'Australia prima dell'arrivo degli occidentali, e le loro opere rientrano nei programmi del 2022 di gallerie e istituzioni. Il 21 gennaio Gagosian ha inaugurato, in una delle sue gallerie di Parigi, Emily: Desert Painter of Australia, una personale della scomparsa Emily Kame Kngwarreye (fino al 12 marzo). Fino al 29 maggio, nella chiesa di San Teonisto, a Treviso, Fondazione Benetton Studi Ricerche e Fondazione Imago Mundi presentano la mostra Terra Incognita, che mette a fuoco la collezione di arte aborigena, parte della Luciano Benetton Collection. In maggio, Sotheby's ospiterà a New York un'asta dedicata all'arte aborigena subito dopo le Evening Sales di arte moderna e contemporanea.
Anche i musei mostrano interesse: alla Tate Modern di Londra ha dovuto prorogare fino al prossimo autunno A Year in Art: Australia 1992, la mostra che presenta le opere acquisite in collaborazione con il Museum of Contemporary Art Australia, la National Gallery di Singapore inaugura a giugno Ever Present: First Peoples Art of Australia, 150 lavori provenienti dalle collezioni della National Gallery of Australia (NGA) e della Wesfarmers Collection of Australian Art. Intanto, il Metropolitan Museum of Art di New York sta finalizzando il progetto di nuove gallerie. «È un momento entusiasmante», commenta Hetti Perkins, curatrice di un altro grande evento, la quarta edizione della National Indigenous Art Triennial della NGA, che si inaugura il 26 marzo a Canberra. «Ed era ora: parliamo dell'arte della cultura più antica della terra, che ancora sopravvive, legata a una popolazione che abita il pianeta in modo sostenibile da 65mila anni. Questi artisti indicano a tutti noi la strada da seguire».
Fasi di interesse per l'arte indigena ci sono state anche in passato, ma è la prima volta che tasselli importanti del sistema si muovono all'unisono. A cominciare dal più importante, il gallerista Larry Gagosian, amico di Steve Martin. Nel 2019 Martin aveva organizzato per gli amici di New York una visione privata della sua collezione. Il giorno dopo, a pranzo, Gagosian gli ha proposto di lavorare insieme a una vera mostra, aperta al pubblico. Intitolata Desert Painters, ha avuto un tale seguito da dover allestire un secondo evento a Los Angeles e un terzo a Hong Kong. Poi, a dicembre di quell'anno, Sotheby's ha tenuto a New York la sua prima asta dedicata agli autori aborigeni, battendo 29 lotti per 2,8 milioni di dollari; 596mila dollari sono andati per un quadro della Kngwarreye. Pochi mesi dopo, il mercante d'arte australiano D'Lan Davidson ha organizzato, sempre a New York, una vendita di opere dei Desert Painters, portando a casa 3 milioni di dollari. «La città ha superato ogni nostra aspettativa: anche per il modo sofisticato con cui il pubblico ha reagito alla proposta e si è fatto coinvolgere», dice Davidson, oggi principale consulente di Steve Martin per il settore.
A tutti e tre gli eventi l'artista che ha ottenuto i risultati maggiori è stata Emily Kngwarreye (Ungwah-ray). La sua storia è affascinante: ha sempre vissuto nell'area di Utopia, con pochi contatti con l'esterno, e ha cominciato a dipingere su tela a 80 anni, nel 1988. Prima di morire, nel 1996, aveva realizzato più di 3mila opere. Proprio negli anni Novanta aveva conquistato la scena australiana. «Certamente è stata la forza dei suoi lavori a farne un'artista di così alto profilo, ma anche la sua totale estraneità al mondo dell'arte contemporanea», dice Perkins. «Il pubblico era affascinato dal fatto che una donna anziana, che viveva in una comunità remota, avesse questa straordinaria capacità di visione. Quasi una figura mitica».
Gli esuberanti dot painting di Emily Kngwarreye, basati su linee cinetiche e su una assoluta maestria del colore, hanno di fatto cambiato il modo in cui gli appassionati di arte contemporanea si accostano ora a quella aborigena. Molti l'hanno paragonata agli Espressionisti astratti. Ma Kngwarreye non ha mai studiato i movimenti artistici del XX secolo. Il suo segno, a tratti sensuale e a tratti muscolare, scaturisce da una profonda conoscenza della tradizione e dal body painting cerimoniale della regione di Utopia.
I 596mila dollari di quella vendita da Sotheby's sono ben lontani dalle vette raggiunte da Kngwarreye: due anni prima, a Sydney, il suo Earth's Creation era stato venduto all'asta per 1,6 milioni di dollari. Davidson dice che nel mercato lei è un'autentica forza della natura. «Emily è un altro pianeta rispetto agli altri. Perché entri nel mainstream e tutti la riconoscano è solo questione di tempo».
Kngwarreye non è l'unica ad avere iniziato a dipingere in tarda età: molti artisti cominciano solo quando sentono che la loro conoscenza è arrivata a buon punto, e ci vuole tempo. Ma il panorama è ovviamente più ampio, e in continua evoluzione. L'anno scorso, ad esempio, ha fatto notizia un post di Beyoncé su Instagram davanti a un quadro di Yukultji Napangati, pittrice di una generazione di mezzo, che le aveva regalato Jay-Z.
Poi ci sono i giovani: la maggior parte di loro vive in città, lontano dai luoghi ancestrali. Alcuni sono artisti urbani che fanno i conti con un sentimento di dislocation, di distacco, dal passato coloniale e violento dell'Australia. Altri appartengono ancora a comunità remote.
Daniel Walbidi (Wal-biddi) è un trentenne che viene da Bidyadanga, nel nord-ovest tropicale dell'Australia. Dipinge scene di straordinaria intensità, usando giallo, rosso e sfumature metalliche. Lavora lentamente e la richiesta dei suoi quadri supera l'offerta: alcuni dei maggiori curatori australiani si lamentano di non riuscire ad acquistare dei Walbidi per i loro musei. «È un visionario», dice Nick Mitzevich, il direttore della National Gallery of Australia di Canberra.
Solo poche centinaia di anni fa esistevano oltre 350 distinti gruppi sociali indigeni, chiamati anche nazioni. La terra d'origine di Walbidi è in realtà il Great Sandy Desert, distante centinaia di miglia dalla costa, ma negli anni Cinquanta il suo popolo, i Karrajarri, è stato costretto a spostarsi per la siccità. Lui ha cominciato a dipingere alle scuole superiori e ha deciso di ritrarre i suoi luoghi ancestrali. Si è seduto tra gli anziani della comunità e ha chiesto di ascoltare le loro storie. «Un mondo nuovo mi si è dischiuso», racconta. «È stata la rivelazione di un sapere e del mio legame profondo con le verità ancestrali». Negli anni seguenti Walbidi ha usato la pittura per preservare la conoscenza di quegli anziani. Fra loro c'erano Weaver Jack e Jan Billycan, diventate a loro volta artiste di successo. Spiega Walbidi: «Le persone di quell'età vedono il mondo, e il legame con la terra, in un modo diverso. Sono i custodi di una sapienza antica e ne incarnano l'autorità. Senza di loro, noi non sappiamo niente».
Walbidi si sta costruendo una reputazione in America: nel 2019 è stato venduto a un'asta di Sotheby's e la galleria che lo rappresenta in Australia, la Short Street Gallery, deve rispondere a numerose richieste: tra queste, la prenotazione per una mostra negli Stati Uniti nel corso del 2022. Un'attenzione che certo non gli dispiace, anche se Walbidi non ha in programma di allontanarsi dal nord-ovest australiano. Spiega che il suo lavoro si nutre della condivisione quotidiana con la sua gente: «La vivo e la respiro».
Se Emily Kngwarreye è la superstar e Walbidi l'astro nascente, Angelina Pwerle (Pull-uh) è il nome su cui sempre più musei e collezionisti scommettono silenziosamente. Si pensa che abbia circa 75 anni e fin dagli anni Novanta ha sviluppato un suo stile di dot painting, incredibilmente pieno di dettagli. I suoi quadri evocano immagini di lontane galassie, formazioni di nuvole e fenomeni geologici, e vibrano di energia. È straordinario il modo in cui si è evoluto il suo lavoro», dice Mitzevich. «Ha raffinato la tradizionale tecnica dot painting del Central Desert e l'ha usata per creare visioni astratte che si distinguono da quelle dei suoi contemporanei».
Sono visioni che si ispirano a Utopia, dove Pwerle ha passato tutta la vita, e al bush plum, il piccolo frutto al quale è dedicata una delle storie sul Dreamtime, il Tempo del Sogno da cui tutto proviene, quello in cui gli spiriti ancestrali attraversavano la terra creandone la geografia e, dentro questa, la vita. Alla Terminalia ferdinandiana, gli aborigeni rendono omaggio a ogni nuova stagione con cerimonie che includono canti, danze e, appunto, la pittura. Su tela e sui loro stessi corpi. In sintesi: i Bush Plum Dreaming sono delle serie che fanno storia a sé, un'arte nell'arte. Todd Hosfelt, gallerista di San Francisco, ricorda molto bene la sua visita a Kerry Stokes, tra i più ricchi d'Australia, a Perth: sulle pareti del suo ufficio c'erano i Bush Plum di Angelina Pwerle. «Era la prima volta che li vedevo: mi sono venuti i brividi», racconta.
Lo scorso dicembre i lavori di Angelina Pwerle sono apparsi in una collettiva al Salon 94 di Art Basel Miami e saranno parte di una mostra itinerante del Met, The Shape of Time: Art and Ancestors of Oceania, che nel 2023 farà due tappe internazionali. Per ora, è un nome custodito gelosamente dagli insider. «I suoi quadri fanno parte di importanti collezioni private, ma finora le opere più significative sono state mostrate di rado nel mercato secondario dell'arte», fa notare Davidson. Le cose potrebbero cambiare molto presto. «Da un punto di vista commerciale siamo solo agli inizi, e non potrei essere più emozionato».
Steve Martin concorda. «Oggi molta arte contemporanea è avvicinabile solo dai miliardari», ammette. «Per me è troppo: per un solo quadro spenderei il budget di dieci anni. Invece qui c'è un fantastico tesoro di lavori bellissimi che è ancora relativamente abbordabile. Non è il genere che si trova nelle gallerie». Un esempio di come il mercato, poco a poco, rettifichi le omissioni passate. «Molti afroamericani trascurati in precedenza sono ormai entrati nel radar dei collezionisti. Potrebbe succedere altrettanto con gli aborigeni».
Angelina Pwerle resta lontana dai riflettori. Parla solo la sua lingua, l'Anmatyerre, e si allontana di rado dalla regione di Utopia. Come Kngwarreye e Walbidi, dipinge per dare voce alla profondità del mondo di cui fa parte, e per garantirne la sopravvivenza. «È un impegno costante», dice attraverso un traduttore. «È il legame spirituale con un luogo». Se le chiedi di spiegare quello che dipinge, dice semplicemente: «I miei Bush Plum rappresentano il tutto: e per tutto, intendo la vita intera».
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