Collezionismo fotografico: investire nella storia del rosso
Più che una tonalità è un archetipo. Protagonista del primo scatto a colori, una scelta cromatica forte può diventare il fil rouge - letteralmente - di una preziosa raccolta tematica.
di Laura Leonelli
6' di lettura
I timidi, quelli per cui il rosso è solo il rossore che accende le guance, possono saltare queste pagine, perché l'idea di una collezione di capolavori della fotografia dedicata al più acceso dei colori, il più ambivalente, il più sacro e maledetto, il più imperiale e rivoluzionario, non fa per loro. E non è solo una questione di gusto, ma di carattere, perché il rosso è il carattere per eccellenza, orgoglioso, ambizioso, assetato di potere, drammatico e passionale, odio e amore insieme. Chi sostiene il contrario, provi a sognare di essere ricevuto negli anni Cinquanta da Diana Vreeland nel suo appartamento newyorkese al 550 di Park Avenue e dubitare che tutto quel rosso di cuscini, tappezzeria, tende, abito, calze, scarpe, unghie, fard, non abbia trasformato la direttrice degli anni più sfavillanti di Harper's Bazaar e Vogue in una regina assoluta. Diceva la Vreeland: «Non riesco a immaginare di annoiarmi con il rosso, sarebbe come annoiarmi con la persona che amo».
Punto primo, chi sceglie il rosso sa amare, vuole amare, vuole farsi amare, e dunque questo rosso-cuore, questo rosso che è poco presente in natura, ma domina pensieri ed emozioni, diventa un modo di guardare e guardarsi, camminando dentro di sé, ed è l'occhio-scarpe rosse di Piero Gemelli, e narrando di sé, sono le labbra dipinte di carminio di Ava Gardner. Immagine misteriosa, questo ritratto che offre in bianco e nero il volto di una delle più temibili dark lady e che racconta di un lato molto “rosso” della fotografia, quasi nevrotico, ovvero il desiderio di volere essere sempre più vicina al vero, colori compresi. Nel 1861, a 22 anni dall'annuncio ufficiale del dagherrotipo e delle sue sfumature argentee, basandosi sugli studi del fisico scozzese James Clerk Maxwell dedicati all'origine di tutti i colori nati dalla mescolanza dei tre primari rosso, verde e blu, Thomas Sutton realizzava la “prima” fotografia a colori. Era un fiocco di seta, e nella fantasia tartan il rosso c'era già.
Volessimo festeggiare il vero anniversario di quest'ansia da prestazione cromatica, magari cenando davanti alla spettacolare parete rosso-fuoco-Giappone di Zuma a Roma, disegnata da Noriyoshi Muramatsu, potremmo ricordare il centenario del primo film in technicolor girato nel 1922 a Hollywood, The Toll of the Sea, per noi Fiore di loto. La pellicola è muta, ma a dare voce ad Anna May Wong, sirena cui l'oceano concede di amare un mortale, è una palette variegata di rossi: rosse le rocce dove compare il corpo del futuro amante, rosso il lungo nastro di seta che le trattiene i capelli e ondeggia nel vento, ricordandole la sua origine marina aliena alle leggi terrestri, rossa ancora la rosa che coglie in un giardino, e rosso il colletto ricamato del suo vestito orientale, visto che stiamo guardando una delle tante versioni di Madama Butterfly. Serve aggiungere che l'abito della moglie americanissima del protagonista maschile, proprio lui, l'uomo salvato dall'amore di May Wong, lui che aveva giurato di portarla con sé negli Stati Uniti e che invece l'abbandona con un figlio (le porterà via anche il piccolo, poi), non splende di una sola pennellata di rosso? Tabù, egoismi, razzismo, peccati da cancellare visto che l'amore e il sesso fuori dal matrimonio sono inammissibili. Il bianco verginale batte il porpora del desiderio. Da allora sarebbe stato un classico, Hollywood e i suoi spettatori che si stendono sul lettino dell'analista – e il più bergmaniano, il più Sussurri e grida, il più doloroso è quello di Sarah Jones – e parlano, parlano, parlano. Un flusso di parole, come un flusso di sangue, caldo, vitale, ipnotico che risale al 3000 a.C., quando l'uomo comincia a utilizzare i pigmenti rossi in pittura e sono le terre ocra dei disegni del Paleolitico. Seguono la robbia dei tintori, Rubia tinctorum, l'ossido di ferro, il solfuro di mercurio, il murice, conchiglia rara, ma presente in tutto il Mediterraneo da cui si ricavava la porpora, e poi il kermes, colorante estratto dalle femmine essiccate di alcune specie di cocciniglia, costosissimo.
Ma cosa non si pagherebbe per entrare nella luce elitaria e salvifica del potere! Lo sapevano bene i laici come gli ecclesiastici, e dopo gli imperatori e i condottieri romani spetta infatti ai pontefici il privilegio di indossare il colore più colore di tutti. Come scrive nei suoi straordinari studi Michel Pastoureau (imperdibile almeno il suo Piccolo libro dei colori, edito da Ponte alle Grazie, 10 euro), «a partire dal XIII e XIV secolo, il papa, fino a quel momento votato al bianco, si mette in rosso. Lo stesso i cardinali. Ciò significa che questi eminenti personaggi sono pronti a versare il loro sangue per Cristo… Nello stesso momento, sui quadri si dipingono diavoli rossi e, nei romanzi, c'è spesso un cavaliere demoniaco e rosso che, con la gualdrappa del destriero bardata d'arme, sfida l'eroe. Un'ambivalenza che viene accettata senza problemi». Un attimo e il rosso diventa il colore dei “papisti”, immorale per i protestanti, e se Roma è la nuova Babilonia, figlia della grande prostituta dell'Apocalisse di Giovanni, naturalmente vestita di scarlatto – un pensiero a La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne – allora il rosso deve sparire anche dal guardaroba del buon cristiano. Risultato, dal XVI secolo gli uomini non indossano più la tinta dell'eroismo e del sacrificio, con eccezione dei cardinali e di certi ordini cavallereschi, ma preferiscono il blu, che nel Medioevo era più indicato alle donne, perché di tale colore si dipingeva il manto della Vergine. Chiaro adesso perché ancora oggi vestiamo di azzurro i neonati maschi e di rosa le bambine?
Eppure la seduzione, non c'è Lutero che tenga, resta accesa, pulsante, rossa, prodigio dei sensi come ricordano il nudo di una giocoliera dell'eros, anonimo francese con ridipinture a mano dell'inizio del Novecento, e così l'autoritratto di Yasumasa Morimura, che indossa l'abito di Vivien Leigh-Rossella O'Hara in Via col vento, e ancora le magnifiche copertine di Vogue firmate da Horst P. Horst e le altrettanto elegantissime fotografie di moda di Frank Horvat. Potrà anche voltarci la schiena quella nipote di Ava Gardner che il grande fotografo francese aveva ritratto per L'Officiel ma, come negli animali, parla la coda dell'abito a strascico, straripante diluvio di amore carnale.
Rosso, ovvio, pericolo. Da quando? C'è una data, di cui riporta sempre Michel Pastoureau, ed è il 1789, quando l'Assemblea costituente francese decreta che, in caso di disordini, una bandiera rossa venga innalzata ai crocicchi per indicare il divieto di assembramento e avvertire che la forza pubblica è autorizzata a intervenire. Ormai lo sappiamo, il rosso è doppio per natura e il 17 luglio 1791 un gruppo numeroso di parigini si ritrova a Campo di Marte per chiedere la destituzione di Luigi XVI. Vista l'aria che tira Jean Sylvain Bailly, sindaco di Parigi, fa alzare di corsa la bandiera rossa, e tuttavia le guardie nazionali sparano senza preavviso. A terra rimangono una cinquantina di morti, “martiri della rivoluzione”. Potrebbe essere una delle tante “gocce di carta” intrise nel sangue di Wolfgang Tillmans o una delle innumerevoli maschere-corpo-assenza di corpo di Patrick Tosani (in realtà sono pantaloni ripresi in prospettiva), che Ettore Molinario ha scelto per trasformare il colore rosso in una delle “dorsali” portanti della sua collezione.
Un colore, un segno per ripercorrere la storia della fotografia dalle origini ai giorni nostri, e non a caso il rosso è il colore che reiventa l'immagine nel taglio scelto sul provino da Man Ray a William Klein. Poi capita, e non a caso a compiere il miracolo è una donna e la più giovane dei fotografi qui scelti, che ogni parte, anche agli estremi, torni a riunirsi e a parlarsi, il peccato e la santità, la morte e la rinascita, la mela di Biancaneve e Cappuccetto Rosso, Medea e la Madonna. Così è la splendida opera di Ilaria Sagaria, allieva dei vitalissimi Laboratori Irregolari di Antonio Biasiucci a Napoli, già vincitrice del XVIII Premio Portfolio Italia nel 2022 e nel 2021 alle Gallerie degli Uffizi con la mostra Il dolore non è un privilegio. E così sono le mani grandi che tengono unite le metà di una melagrana, alias il nostro mondo simbolico, rossa la buccia, rossi i chicchi, rosso il succo che sta per tingere la pelle. Che riparta da quest'alleanza, fluida di carne e di spirito, la nostra voglia di vivere dentro le immagini.
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