SBAGLIANDO SI IMPARA

Come affrontare le tempeste del futuro, accettando i propri limiti

Nei meccanismi del cervello umano le abilità (allenabili) per superare gli ostacoli

di Andrea Beretta *

(AFP)

4' di lettura

Ho letto d’un fiato l’ultimo libro di Pietro Trabucchi, Nelle Tempeste del Futuro: 130 pagine dedicate a scoprire le capacità mentali che le sfide del futuro ci richiederanno, attraverso il racconto di storie di super atleti ed esploratori. Ho una particolare considerazione del lavoro di Trabucchi, che alterna l’attività di studio e di analisi alla sperimentazione sul campo, alla ricerca e al confronto continuo tra modelli, risultati delle ricerche e dati empirici vissuti e raccolti in prima persona. Da anni, nei suoi libri, approfondisce il tema del funzionamento del cervello umano, con l’obiettivo di capire e descrivere i meccanismi e le dinamiche della motivazione umana, sia in situazioni ordinarie che straordinarie.

In questo ultimo libro, gli assunti da cui Trabucchi muove la sua riflessione sono due: il primo è che “un mondo sempre più incerto e impermanente si spalanca davanti a noi, un luogo dove il cambiamento e l’imprevisto saranno sempre più una costante”. Il secondo è che “per adattarsi a questa nuova condizione è necessario un mutamento delle caratteristiche mentali delle persone (mindset), che oggi risultano particolarmente inadeguate ad affrontare le sfide del futuro”.

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Perché, secondo Trabucchi, la “società e la cultura attuali tendono a indebolire e atrofizzare le nostre capacità psicologiche e a incoraggiare comportamenti che sono all’opposto di quelli che andrebbero sviluppati”. In particolar modo, promuovendo una relazione con la tecnologia e con i consumi nefasta per gli individui, perché spinge con forza verso l’instant gratification e non verso un’attitudine a lavorare su tempi lunghi, a concentrarsi con determinazione, a dilazionare le gratificazioni.

Per Trabucchi sono quattro le capacità psicologiche fondamentali per fronteggiare le sfide del mondo di oggi e di quello che verrà. La prima è la capacità di autoregolarsi, ovvero di non essere in balia né degli stimoli e degli impulsi esterni, né della parte rettiliana del nostro cervello. Capacità che si apprende e si consolida grazie all’allenamento. La seconda è la capacità di tollerare l’incertezza, anche descritta come “capacità negativa” (John Keats) ovvero in situazioni in cui si abbassa il senso di controllo e aumenta lo stress. Questa abilità si sviluppa con alcune specifiche strategie cognitive: focus su obiettivi a portata di mano; concentrazione sul qui e ora; tolleranza verso una ridefinizione al ribasso delle aspettative.

La terza capacità è pensare in modo autonomo, per non essere manipolati e per distinguere tra realtà e immaginazione. Una capacità che può essere recuperata, “reimparando a fidarci della sensibilità interocettiva, cioè della percezione profonda del corpo su cui si fondano la nostra identità e la percezione di essere reali”. L’ultima è la capacità di accettare il limite e di ridimensionare il proprio ego: capacità necessaria, perché secondo Trabucchi si cresce solo imparando a confrontarsi con i propri limiti; e urgente, date le condizioni del Pianeta, se vogliamo lasciare un mondo in condizioni di salute migliori di come lo abbiamo ridotto.

Lascio un po’ di sorprese sia su come Trabucchi, muovendosi tra scienza, esperienza e storytelling, declina le quattro capacità e le metodologie per svilupparle; sia sulle numerose storie che racconta a supporto delle sue tesi e delle evidenze che emergono dalle sue ricerche (quella di Bruno Brunod, che accompagna diversi suoi libri, continua ad essere la mia preferita).

Colgo invece due spunti dal libro per approfondire altrettante questioni che trovo particolarmente attuali e interessanti.La prima è relativa al rapporto tra individui e tecnologie. Nei due capitoli in cui si focalizza sulla capacità di pensare in modo autonomo e sulla capacità di autoregolarsi, Trabucchi chiarisce che una delle cause principali del deterioramento di queste abilità dipende da un uso, dilagante e passivo, delle tecnologie e dei canali di comunicazione digitali, perché “rendono le persone iperemotive, incapaci di regolare l’attenzione e di tollerare la minima frustrazione, impulsive e perennemente rivolte alla ricerca di gratificazioni immediate”; e inducono a una perdita di contatto con la realtà che spinge in modo preoccupante gli individui a compiere le loro scelte in base a meccanismi di influenza sociale (gli influencer sono definiti nel libro “i sacerdoti del nulla”, pagina 95) anziché in modo autonomo.

Poiché è indubbio che le tecnologie hanno cambiato e continueranno a cambiare i nostri stili di vita, le nostre abitudini e il nostro modo di lavorare, trovo stimolante questa presa di posizione, che non mette in discussione l’uso delle tecnologie ma lancia un fortissimo segnale d’allarme sui suoi effetti nefasti. Suggerendo con chiarezza alcuni necessari e urgenti accorgimenti, quali “permettere ai bambini di costruirsi un’esperienza attiva della realtà, padroneggiare e insegnare a padroneggiare l’arte del fact-checking, implementare un minimo di alfabetizzazione scientifica, aumentare la consapevolezza di alcuni precisi fenomeni di distorsione cognitiva”.

La seconda afferisce al rapporto tra io e noi. A pagina 15, siamo ancora nel capitolo introduttivo del libro, Trabucchi scrive: “il vero cambiamento dunque – a meno che non stiamo cercando degli alibi – non può che essere individuale”. E ancora a pagina 125 esplicita: “quello che deve avvenire è un mutamento della mentalità diffusa che può basarsi solo su un cambiamento individuale”. Io sono convinto come lui che un cambiamento di mindset, di abitudini, di attitudini e di comportamenti non può che essere individuale. Ma credo che, oggi più di ieri, è nella relazione e nell'interazione tra il singolo individuo e le altre persone - gli altri attori dell'ecosistema in cui vive - che si può generare la miglior condizione affinché un cambiamento avvenga, generando via via una situazione favorevole a promuovere il cambiamento stesso.

L’accettazione del limite e la capacità di ridimensionare l’ego, una delle quattro capacità decisive per Trabucchi, può anche essere sollecitata dall’interazione con una sfida, con un record, con un’ambizione, con una menomazione, con un imprevisto. Non penso però che il cambiamento profondo atteso da Trabucchi si possa compiere in una sfida solo con sé stessi, che rischia anzi di trasformarsi in una carezza all’amor proprio e di rinforzare quell’antropocentrismo moderno che Trabucchi deplora. Gli altri non solo non sono nostri competitor, bensì sostanziano quel confine che è allo stesso tempo limite, ma anche fine comune. E, il fine comune ultimo, dipende dalle nostre capacità di gestire le tempeste del futuro, insieme.

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